martedì 5 luglio 2016

Brexit: leave and let die...

Il risultato del referendum nel Regno di Gran Bretagna e Irlanda del Nord è stato a dir poco sorprendente. Consideriamo gli eventi in modo sereno e, ove possibile, rimaniamo nell’alveo della scienza giuridica giacché sul piano politico si sono già scatenati i commentatori più rigorosi. Anche coloro che di Unione europea ne sanno poco o niente. Ma questo è un’atteggiamento tipico (“non sapere ma parlo”) che ha accompagnato più di sessant’anni di integrazione europea, che però, d’ora in avanti, deve cambiare se si vuole ancora proseguire nel progetto europeo. E credo, al di là di condivisibili ragioni, che Brexit sia anche il frutto della disinformazione (ma c’è mai stata?) sull’universo Unione; come conseguenza di anni e anni di cattiva stampa anche, e soprattutto, da parte dei governi nazionali. Stavolta, in un mese, non si è riusciti a far dimenticare all’elettorato quanto di pessimo è stato loro detto negli anni sull’Unione come la causa di tutti i mali. Ho letto e sentito commenti sull’Unione europea come l’Unione sovietica; insomma come il diavolo. Va detto che a seguito del referendum al governo del Regno Unito (o la Gran Bretagna se preferite) si presentano due opzioni: una interna e l’altra europea (non dico “esterna” perché l’Unione non è qualcosa di esterno o di “estraneo” bensì è parte integrante delle nostre strutture di governo e il diritto UE è parte integrante dei diritti nazionali degli Stati membri). La prima riguarda il risultato referendario che evidenzia una spaccatura all’interno del Regno Unito ove si considerino i voti di alcune aree non solo storicamente culturalmente ed etnicamente “diverse” dall’Inghilterra, ma anche sul piano strettamente religioso. Nei rapporti con l’UE non v’è dubbio che il Regno Unito da quando ha aderito all’allora Comunità economica europea (CEE), nel 1972, - affermava Napoleone “gli inglesi sono un popolo di commercianti” - ha da subito mostrato un’atteggiamento spiccatamente opportunistico e poco solidaristico, spesso in contrasto con gli stessi Trattati e con la legislazione europea. I testi di quanto si afferma sono rinvenibili nel sito Eur-Lex nel quale è possibile consultare tutti i Trattati ai quali la Gran Bretagna e l’Irlanda del Nord si è vincolata (o non ha voluto farlo), partendo dal Trattato di adesione alla CEE del 1972, passando per l’accordo di Schengen, l’Atto Unico Europeo (AUE), i Trattati di Amsterdam, Maastricht, fino ai nostri giorni con il Trattato di Lisbona (oggi in vigore) e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Carta UE). In questi pochi esempi, ma ce ne sarebbero molti altri, si pensi alle votazioni all’unanimità in talune materie (per fortuna oggi minoritarie), il Regno di Gran Bretagna e Irlanda del Nord ha spesso chiesto ed ottenuto, a priori, clausole di esenzione (opting-out) in molti settori di competenza dell’Unione europea. Cioè a dire, accetto solo quello che ci fa piacere e rifiuto ciò che non mi piace. Un numero considerevole di norme dei Trattati, Protocolli, Dichiarazioni, definiscono la portata “intermittente” dell’integrazione britannica. È la c.d. “Europa à la Carte”. Altro che rispetto del principio di non discriminazione o della parità di trattamento. Semplificando al massimo ricordo alcune clausole opting-out ottenute: il sopra citato accordo di Schengen che riguarda la libera circolazione delle persone; l’Unione economica e monetaria e quindi l’euro; lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia che attiene all’immigrazione e all’asilo nonché alla cooperazione giudiziaria civile e penale; la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Da ultimo, però, i Capi di Stato e di Governo degli Stati membri nelle (recenti) conclusioni del Consiglio europeo del 18 e 19 febbraio 2016 dal titolo, emblematico quanto illogico, “Una nuova intesa per il Regno Unito nell’Unione europea” (in GUUE C 69 del 23 febbraio 2016), hanno accordato (e la Commissione europea passivamente ha accettato) altre esenzioni (o rinnovo di precedenti opting-out già ottenute) per cercare di aiutare il Governo Britannico nella difficile impresa di convincere la cittadinanza a votare “Remain”. Cosa che non è accaduta (per le considerazioni fatte sopra). Questa Unione europea a guida del Consiglio europeo (intergovernativa) non va bene e non può essere il futuro dell’integrazione europea (che ha già un suo “sistema sovranazionale comunitario”). Perché nelle conclusioni il Consiglio europeo parla a nome dell’Unione e non della singola Istituzione. Vi invito a leggerle. Le solite frasi ridondanti. Ma c’è di peggio. Al punto 1 si afferma: ” Nella riunione di dicembre i membri del Consiglio europeo hanno convenuto di collaborare strettamente per trovare soluzioni di reciproca soddisfazione in tutti e quattro gli ambiti menzionati nella lettera del primo ministro britannico del 10 novembre 2015” e punto 2 “Il Consiglio europeo ha oggi convenuto che il seguente insieme di disposizioni, che sono pienamente compatibili con i trattati e prenderanno effetto alla data in cui il governo del Regno Unito informerà il segretario generale del Consiglio che il Regno Unito ha deciso di restare membro dell'Unione europea, costituisce una risposta appropriata alle preoccupazioni del Regno Unito”. Soluzioni di reciproca soddisfazione? Disposizioni pienamente compatibili con i trattati? Ma di che parliamo? E più avanti si specifica: “RAMMENTANDO in particolare che, conformemente ai trattati, il Regno Unito ha il diritto di (sottolineo “il diritto di”): — non adottare l'euro e, pertanto, mantenere la lira sterlina come moneta (protocollo n. 15), — non partecipare all'acquis di Schengen (protocollo n. 19), — esercitare controlli sulle persone alle frontiere e, pertanto, non partecipare allo spazio Schengen per quanto concerne le frontiere interne ed esterne (protocollo n. 20), — scegliere se partecipare o meno a misure relative allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia (protocollo n. 21), — cessare l'applicazione, a partire dal 1° dicembre 2014, della grande maggioranza di atti e disposizioni dell'Unione nel settore della cooperazione di polizia e della cooperazione giudiziaria in materia penale adottati prima dell'entrata in vigore del trattato di Lisbona, pur scegliendo di continuare a partecipare a 35 di essi (articolo 10, paragrafi 4 e 5, del protocollo n. 36)”. E, da ultimo, “RAMMENTANDO inoltre che la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea non ha esteso la competenza della Corte di giustizia dell'Unione europea o di qualunque altro organo giurisdizionale del Regno Unito a pronunciarsi sulla conformità dei diritti e delle pratiche del Regno Unito ai diritti fondamentali che essa riafferma (protocollo n. 30)”. Tutto ciò, tutte le ulteriori concessioni fatte (dal Consiglio europeo!) non sono servite a far ricredere l’elettorato. Mi chiedo: se il referendum fosse andato in un’altra direzione che Unione europea avremmo avuto? Sulla scorta dei recenti eventi bisogna ripensare l’Unione; ovviamente non una Unione intergovernativa (diplomatica) nella quale a decidere sia solo il Consiglio europeo; bensì un’Unione più democratica ed indipendente dagli Stati membri nelle materie di competenza UE. Con il ruolo centrale del Parlamento europeo, della Commissione e del Consiglio dell’Unione europea (la “triade” legislativa; anche “trilogo”). Se gli Stati rimangono gelosi delle proprie prerogative (sovranità) non si va da nessuna parte. Mi ricordo di una vecchia canzone di Paul McCartney qualche tempo fa ripresa da Guns N' Roses “Live and Let Die”…

giovedì 16 giugno 2016

Alcune considerazioni su BREXIT

Già da tempo, ma soprattutto in questi ultimi giorni, sui media non si parla altro di “Brexit” (e non potrebbe essere altrimenti considerata l’importanza della consultazione popolare) ossia del referendum britannico del 23 giugno p.v. che dovrà decidere se il Regno Unito (rimarrà “unito” dopo una eventuale Brexit? penso solo alla Scozia…) rimarrà nell’Unione europea (UE) Stato Membro a pieno titolo oppure se, dopo 42 anni circa, ne uscirà per volontà popolare. Con conseguenze prevedibili non soltanto per il Regno Unito ma anche per l’Unione europea e sul piano globale per i rapporti internazionali. In ogni caso parlare di Unione europea è sempre un fatto positivo, anche in questi termini, laddove la reputazione negativa dell’UE è da sempre appannaggio sia di populisti che cavalcano l’onda del malcontento (dovuto “solo” all’UE?), sia dei governi nazionali che utilizzano la facile demagogia politica per scaricare “all’esterno” eventuali responsabilità o errori di politica nazionale. Insomma una bella “valvola di sfogo”! Che però, a lungo andare, porta a quel malcontento generalizzato nei cittadini non sempre modificabile in pochi giorni. É ciò che sta accadendo in Gran Bretagna. Non è semplice modificare l’opinione pubblica in un mese laddove sono anni che i governi nazionali indicano ai propri amministrati l’UE come la causa di tutti i mali. Detto questo mi occupo, sul piano strettamente giuridico, dell’eventuale Brexit. L’uscita (o il recesso) di uno Stato membro dall’Unione europea non è cosa semplice. O meglio. Uno Stato non può uscirne sic et simpliciter, inviando all’Unione (Istituzioni e Stati membri) una mera lettera di volontà di recesso. Occorre rispettare regole e procedure previste dall’art. 50 del Trattato sull’Unione europea (TUE) così come modificato dall’ultima riforma di Lisbona entrata in vigore il 1° dicembre 2009. Afferma infatti l’art. 50, par. 2 che, lo ricordo, ha introdotto per la prima volta una norma esplicita in materia di abbandono dell’UE, “Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l'Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l'Unione. L'accordo è negoziato conformemente all'articolo 218, paragrafo 3 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Esso è concluso a nome dell'Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo”. Inoltre, i successivi paragg. 3 e 4 stabiliscono “I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell'accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica di cui al paragrafo 2, salvo che il Consiglio europeo, d'intesa con lo Stato membro interessato, decida all'unanimità di prorogare tale termine. E (…) “il membro del Consiglio europeo e del Consiglio che rappresenta lo Stato membro che recede non partecipa né alle deliberazioni né alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo riguardano”. Il complesso corpus di norme, ad una prima lettura, sembrerebbe incompatibile con il successivo art. 53 TUE e con l’art. 356 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) che, a me pare, indicano la natura irreversibile dell’UE (“Il presente trattato è concluso per una durata illimitata”). Ad ogni modo, al di là delle questioni giuridiche e dottrinali che non sono l’oggetto di queste osservazioni generali, per abbandonare l’UE lo Stato deve rispettare le regole e i tempi di cui all’art. 50 TUE. Si tratta di una procedura che vede coinvolti vari soggetti: istituzioni UE, Stati membri nel rispetto di procedure, maggioranze e tempi imposti. Ad una prima riflessione ci vorrebbero almeno due anni affinché l’”accordo di recesso” possa entrare in vigore sebbene i tempi possono essere più lunghi grazie alle previsioni di eventuali prororoghe. A differenza dell’”entrata” di un nuovo Stato (europeo) nell’Unione (art. 49 TUE), per l’”uscita” (recesso) l’accordo non è stipulato tra gli Stati Membri (procedura intergovernativa) bensì dalle istituzioni UE (procedura “comunitaria”) nel rispetto delle più generali regole di conclusione degli accordi internazionali (dell’UE con Stati terzi o organizzazioni internazionali) secondo il sopra citato art. 218 TFUE. Gli effetti concreti del recesso sarebbero, pertanto, riconducibili a: 1) perdita dello status di Stato membro e quindi mancanza di diritti e doveri “comunitari”; 2) dal che, estinzione dei rapporti giuridici dello Stato che diviene pertanto “terzo”. Una questione non contemplata dall’art. 50, ma che non riguarda l’eventuale Brexit, attiene all’unione economica e monetaria (UEM) e l’euro. Che sappiamo avere una disciplina speciale ma in ogni caso prevista, nella sua generalità, dai Trattati UE. Ad una prima considerazione il recesso ex art. 50 comporterebbe l’uscita dall’Unione europea nella totalità; e quindi anche dall’UEM. Non si può escludere, tuttavia, che, in ipotesi, uno Stato esca dall’UE ma voglia mantenere la moneta unica europea quanto meno petr un periodo transitorio. Ma, come detto, non è questo il caso dell’eventuale Brexit. In ultimo. L’irreversibilità del processo di integrazione europea deducibile dai trattati e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, sarebbe ricavabile anche dal quinto pagrafo del medesimo articolo 50 laddove si legge “Se lo Stato che ha receduto dall'Unione chiede di aderirvi nuovamente, tale richiesta è oggetto della procedura di cui all'articolo 49”. Come dire, se lo Stato dovesse ripensarci, non avrà nessun trattamento di favore; anzi si priproporranno le medesime regole e procedure previste per gli Stati terzi.

mercoledì 20 aprile 2016

Le “amnesie selettive” dell’Unione europea a proposito del rinnovato “caso Turchia 2016”

Adriana Cerretelli (che riceverà il I Premio "Europa" 2016 a Ventotene il 28 maggio p.v.) nel suo attento editoriale su “Il Sole 24 Ore” di martedì 8 marzo 2016 dal titolo “L’Europa spaccata al gran ballo del sultano” (consultabile su http://www.ilsole24ore.com/…/l-europa-spaccata-gran-ballo-s…) afferma, cito: “Che l’emergenza rifugiati e il modo in cui sarà gestita e risolta sia destinata a scrivere, nel bene e nel male, la storia di una nuova Europa non è una novità. Nuovo è il suo patto di ferro con la Turchia di Tayyip Erdogan, improvvisamente elevata a 29° paese membro dell’Unione. Di fatto se non di diritto. Con un clamoroso voltafaccia che sbriciola resistenze che sembravano insuperabili e, soprattutto, sorvola sulle condizioni minime richieste, cioè il rispetto dei cosiddetti valori fondamentali europei, come libertà di stampa e di espressione, parità di genere, tutela delle minoranze, curda prima di tutto. Sono famose le amnesie selettive europee: non saranno né le prime né le ultime”. Di fatto non di diritto, appunto. La questione dell’adesione della Repubblica di Turchia prima alle Comunità europee poi all’Unione è un fatto vecchio a partire dal c.d. “Accordo di Ankara” del 1963, accordo di associazione sottoscritto con l'allora Comunità economica europea. Successivamente la Repubblica di Turchia ha presentato formale domanda di adesione nel 1987 ed è stata dichiarata paese candidato nel 1999. I negoziati con l’Unione europea sono stati avviati nel 2005 e non si sono ancora conclusi. Tant’è che la Turchia non è il 29° Stato delll’Unione quanto meno sul piano strettamente giuridico, sebbene in questa fase storica sembrerebbe esserci un’accelerazione dell’adesione a danno dei valori e delle regole comuni. Che hanno riguardato tutti gli Stati membri (con diverse sfumature) allorché chiesero di entrare nell’Unione. Di regola, le varie fasi dell’adesione e la procedura sono lunghe e complesse; se si considerano le precedenti 22 adesioni di nuovi Stati “europei” sino ad oggi. A seguito dell’apertura dei negoziati con la Turchia nel 2005, la Commissione europea ha lanciato nel maggio 2012 una «road map» per rivitalizzare le relazioni bilaterali sostenendo gli sforzi compiuti dallo Stato richiedente l’adesione per allinearsi al c.d. “acquis” dell'Unione. Dopo oltre tre anni di sospensione dei negoziati, nel dicembre 2013 l'Unione ha firmato un accordo con la Turchia c.d. di “riammissione” e, in quella sede, è ripartita la fase negoziale ed è stato aperto un nuovo capitolo di negoziato sulla politica regionale e il coordinamento degli strumenti strutturali che fanno parte dei cc.dd. «capitoli tematici». Ricordo a tal riguardo che l’acquis comunitario (vale a dire tutto il diritto UE vigente dal 1951 ad oggi che uno Stato candidato all’adesione deve necessariamente “assorbire” nel prorio ordinamento giuridico) è suddiviso in 35 aree politiche (“dossier”), ciascuna da negoziare separatamente e a discrezione della Commissione europea (che tiene informati Parlamento europeo e Consiglio) senza un’ordine sistematico/cronologico e, perché no, di valori. Durante questa fase la Commissione europea collabora con gli Stati candidati nell’attuazione dell’ acquis e li assiste nel corso di tutta la procedura con strumenti tecnici e di finanziamento di preadesione. Allo stato attuale, otto capitoli (dei 35 “dossier”) sono bloccati e nessun capitolo sarà chiuso provvisoriamente fino a quando la Turchia non applicherà alla Repubblica di Cipro (Stato membro dell’Unione !) il «protocollo addizionale all'accordo di associazione di Ankara». Come dire: entro nel Club ma con Cipro non voglio aver nulla a che fare! E questo è evidentemente un nodo difficile da sciogliere. Non il solo. Alcuni Stati membri dell'Unione si sono opposti all'apertura di ulteriori capitoli negoziali. Vi sono pareri discordanti in merito all'opportunità di aprire i “dossier” chiave 23 e 24, che sono direttamente legati a molte questioni che destano preoccupazione nelle relazioni tra l'Unione europea e la Turchia (diritti e libertà fondamentali, sicurezza, giustizia). Ricordo, a tal riguardo, che l’articolo 49 del Trattato sull’Unione europea (TUE) costituisce la base giuridica per qualsiasi Stato “europeo” che intenda aderire all’Unione; mentre l’articolo 2 TUE stabilisce i valori su cui si fonda l’UE: dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, Stato di diritto e rispetto dei diritti umani, compresi i diritti dminoranze (Curdi). Inoltre questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini. Non mi pare che ci siano ancora le condizioni per l’adesione stando al dato normativo. Salvo “amnesie” a favore di altri valori geo-politici, umanitari, economici, commerciali ritenuti in questa fase storica preminenti. Lo Stato candidato deve complessivamente soddisfare i “criteri di Copenaghen” (1993), criteri di ammissibilità che attengono 1) alla capacità dello Stato di essere in grado di applicare il diritto dell’Unione europea e 2) garantire che il diritto comune europeo recepito nella legislazione nazionale 3) sia attuato in modo effettivo. Inoltre non solo deve rispettare, come detto, i valori di cui all'articolo 2 TUE ma anche che si impegni a promuoverli. L’Unione europea si riserva il diritto di decidere quando lo Stato candidato ha soddisfatto i criteri di adesione. Lo Stato europeo che soddisfa i criteri appena citati presenta una richiesta formale al Consiglio dell’Unione (non Consiglio europeo!) che informa il Parlamento europeo, la Commissione e i Parlamenti nazionali della domanda di adesione. Il Consiglio si pronuncia all'unanimità previa consultazione della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo che si pronuncia a maggioranza dei membri che lo compongono. Il cammino è lungo ed irto di asperità…salvo amnesie…