giovedì 10 settembre 2015

Il caso Ungheria, Repubblica Ceca e Danimarca e la «sospensione» dei diritti fondamentali nella UE


Da qualche tempo a questa parte l'Ungheria e la Repubblica Ceca, da ultimo anche la Danimarca, tutti e tre Stati membri dell'Unione europea, mostrano dei comportamenti che non sono conformi ai Trattati UE sia dal punto di vista dell'applicazione delle norme comunitarie, sia per quanto riguarda il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali. Ricordo soltanto la sospensione di Schengen, la costruzione di muri, le cariche della polizia nazionale ecc. Con diversi accenti e diverse intensità entrambi gli Stati membri sono sotto la lente della Commisssione europea e delle discussioni politico-diplomatiche in seno al Consiglio europeo e al Consiglio dell'Unione. Anche il Parlamento europeo è in fermento. Ci si chiede, insomma, a fronte di siffatti comportamenti riprovevoli in ordine alla gestione dei flussi migratori in Europa - che rappresentano un fatto (non una questione) globalizzato e che bisogna gestire nel rispetto dei diritti (diritto essenziali alla vita, al cibo, all'acqua, a farsi una famiglia, ecc.) –se il diritto dell'Unione europea ha previsto eventuali rimedi alle violazioni dei diritti fondamentali da parte di uno Stato già membro dell'UE. Ciò perchè, com'è noto, per aderire all'Unione uno Stato europeo ai sensi dell'art. 49 TUE deve preventivamente rispettare alcuni parametri (criteri) politici, economici e di rispetto del diritto UE vigente, pena il rinvio dell'ingresso dello Stato nella UE e la non adesione a pieno titolo (si pensi alla Turchia, ma non solo). E questo è il punto. Cioè a dire, uno Stato che chiede di entrare nel Club UE deve rispettare vari criteri per entrare nella UE (35 capitoli da rispettare dai diritti fondamentali al mercato interno ecc.) ma, quid iuris una volta divenuto Stato membro a pieno titolo? Il sistema dei Trattati e la legislazione vigente propongono rimedi a tal riguardo oppure non si è più «fiscali» nelle valutazioni come per l'ingresso? Con queste poche righe evidentemente non esaustive nè definitive, vorrei solo mettere in evidenza che i Trattati in vigore (TUE e TFUE + Carta UE) presentano rimedi e procedure che potrebbero essere adoperate dalle istituzioni UE nei confronti di Stati membri che violano i diritti e le libertà fondamentali. Pertanto, l'oggetto delle riflessioni che seguono, giuridiche e non politiche, riguarda esclusivamente la protezione dei diritti fondamentali nell'Unione europea e le loro eventuali violazioni da parte degli Stati membri. Giacchè, come non sempre si sa, l'Unione europea si occupa anche di siffatte questioni e non soltanto di unione monetaria, euro e mercato. Ci viene in aiuto l'art. 7 TUE che stabilisce una procedura di tipo sanzionatorio, ancorchè più politica che giurisdizionale come vedremo, nei confronti di uno Stato membro che violi, in modo grave e persistente, uno o più valori sui quali l'Unione si fonda (rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze (art. 2 TUE). In linea di principio, siffatte violazioni potrebbero essere sanzionate con la sospensione di alcuni diritti dello Stato in seno all'UE, quali, la sospensione dell'erogazione di fondi, contributi, prestiti, fino alla extrema ratio della sospensione dei diritti di voto nel Consiglio dell'Unione (non nel Consiglio europeo). La procedura, tuttavia, è complessa e farraginosa; nel senso che i redattori della norma, cioè gli Stati membri, hanno da un lato voluto inserire nel Trattato una sorta di deterrente ma, dall'altro, nello stesso tempo, l'hanno resa di non facile applicazione. Una norma elaborata dagli Stati per sanzionare uno di loro…L'art. 7 fu inserito nel Trattato sull'Unione già nel 1997 durante la riforma di Amsterdam; così come lo leggiamo oggi  trae origine dal caso Haider in Austria, leader del Partito FPÖ (Partito austriaco delle libertà), ultranazionalista e xenofobo, che negli anni 2000 sembrava dovesse salire al governo austriaco. Cioè nel governo di uno Stato membro UE. La procedura «di allarme», o preliminare, può essere avviata su proposta motivata (sic!) di un terzo degli Stati membri (!), dal Parlamento europeo o dalla Commissione europea e potrebbe concludersi con decisione (di accertamento) del Consiglio UE (che delibera alla maggioranza dei quattro quinti (!) dei suoi membri (ovviamente senza lo Stato membro in questione), previa approvazione del Parlamento europeo [a maggioranza dei due terzi dei voti espressi, che rappresenta la maggioranza dei membri che lo compongono (!) (cfr. l'art. 354 TFUE)], può (!) constatare che esiste un evidente rischio di violazione grave (!) da parte di uno Stato membro dei valori di cui all'articolo 2 TUE. Prima di procedere a tale constatazione il Consiglio ascolta lo Stato membro in questione e può rivolgergli delle raccomandazioni, deliberando secondo la stessa procedura. Successivamente, andando avanti nella procedura, anche il Consiglio europeo, deliberando all'unanimità su proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione europea e previa approvazione del Parlamento europeo, può constatare l'esistenza di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei valori di cui all'articolo 2, e quindi confermarla, dopo aver invitato tale Stato membro a presentare osservazioni. Così che, dopo il placet del Consiglio europeo, il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può decidere di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall'applicazione dei Trattati, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo di tale Stato membro in seno al Consiglio. Nell'agire in tal senso, il Consiglio tiene conto delle possibili conseguenze di una siffatta sospensione sui diritti e sugli obblighi delle persone fisiche e giuridiche. La «sanzione» non si spinge fino all'espulsione dello Stato membro (istituto assente nei Trattati) benchè gli effetti delle sospensioni hanno un esito molto simile all'espulsione. Anzi, forse peggiore, giacché lo Stato «sospeso» deve continuare a rispettare gli ogglighi derivanti dai Trattati e delle decisioni prese dagli altri Stati membri, dalla Commissione e dal Parlamento europeo. Fermo restando il diritto di recedere dall'Unione ex art. 50 TUE. La procedura è quindi saldamente nella sfera di Consiglio UE e Consiglio europeo le istituzioni rappresentative degli Stati e dei Governi. Peraltro la Corte di giustizia è fuori dal merito della questione e, ai sensi dell'articolo 269 TFUE, è competente a pronunciarsi unicamente sulla legittimità di un atto adottato dal Consiglio europeo o dal Consiglio (a norma dell'articolo 7 TUE) unicamente su domanda dello Stato membro oggetto di una constatazione (!) del Consiglio europeo (!) o del Consiglio UE (!) e per quanto concerne il rispetto delle sole prescrizioni di carattere procedurale previste dal suddetto articolo (!). C'è d'aggiungere altro? Traete le conclusioni.

venerdì 19 giugno 2015

Grexit: alcune riflessioni sulle conseguenze politiche, economiche e sociali del mancato accordo tra Troika (o Gruppo di Bruxelles) e Grecia. Vae victis!



Qualche mese fa ho riletto il saggio di John Maynard Keynes, del 1919, "Le conseguenze economiche della pace" (Adelphi 2012), convinto che la sua (sorprendente) attualità possa essere utile nella risoluzione della questione della Grecia. Vae victis! Guai ai vinti. É questo il senso della critica di Keynes ai vincitori della prima guerra mondiale. Nella questione odierna non ne è coinvolta soltanto la Grecia, si badi bene, che funge da casus belli, ma tutta l'Unione europea intendendo i 28 Stati membri, le Istituzioni e, quindi, l'intero sistema. Ripercussioni sono verificabili anche oltre l'Europa posto che i mercati finanziari e la globalizzazione sono evidentemente sistemi interconnessi. Keynes nel suo saggio ha predetto la catastrofe all'indomani del Trattato di Versailles che ha stabilito le riparazioni e i risarcimenti nei confronti della Germania all'indomani della conclusione della prima guerra mondiale. Egli scriveva "chiedendo l'impossibile hanno sacrificato la sostanza all'apparenza e alla fine perderanno tutto" (p. 13). E ancora "una guerra dichiaratamente combattuta in difesa della sacralità degli impegni internazionali, che termina con la patente violazione di uno tra i più sacri di tali impegni da parte deicampioni vittoriosi di questi ideali" (p. 123). Sorprendentemente e tragicamente attuale. Prendendo a modello le considerazioni premonitrici di Keynes, una prima considerazione da uomo della strada è che a Bruxelles nei negoziati fiume che si susseguono oramai da anni, si sta "scherzando" con il fuoco. Si è giunti alla stretta conclusiva. Alla fine quale che sarà la decisione finale, non ci saranno vincitori e vinti nè da un lato nè dalll'altro. Tutti hanno (già) perso e gli attori principali di questa incredibile farsa porteranno con sè la responsabilità del futuro dei nostri figli e dei nipoti. La questione è meramente politica, punto. Di stupidità politica. Da un lato le richieste dei cc.dd. "creditori" europei, vale a dire, la c.d. "Troika" (due rappresentanti UE – Commissione europea e BCE) dall'altro le richiesta internazionali del Fondo Monetario Internazionale (FMI). Troppa ostinazione e rigidità da parte dei creditori e troppe promesse ai propri elettori, oggi irrealizzabili, da parte del governo greco. Le cause che hanno portato a questa impasse politica sono note sia da un lato che dall'altro. Jeffry Sachs nel suo articolo "Il default greco? Un impatto paragonabile al crack Lehman" (crisi USA del 2008) pubblicato ne Il Sole 24 Ore del 18 giugno 2015 a pag. 2, ammonisce la rigidità e le richieste dei creditori ritenendole "autolesionistiche". Sono d'accordo. Ci vorrebbe buon senso politico. Giacchè una parte importante della popolazione greca soffre la fame. Non c'è d'aggiungere altro. Integrazione (europea) vuol dire anche rispettare le "eredità culturali, religiose e umanistiche dell'Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza e dello Stato di diritto" ricordando sempre "l'importanza storica della fine della divisione del continente europeo e la necessità di creare solide basi per l'edificazione dell'Europa futura" nonché accrescere "la solidarietà tra i loro popoli rispettandone la storia, la cultura e le tradizioni" (Preambolo Trattato sull'Unione europea-TUE). Sono belle espressioni scolpite nei Trattati, rispettiamole, applichiamole, ricordando Keynes. L'Europa è la culla della civiltà e dei diritti non dimentichiamolo mai.

lunedì 27 aprile 2015


L'articolo di Luca Ricolfi apparso su Il Sole 24 Ore di ieri, che segnalo, analizza la ricerca della Fondazione David Hume sulle disuguaglianze. Vale la pena approfondire la tematica. Non sempre i dati e le statistiche fotografano ciò che accade nell'uomo nella sua intima esistenza e all'interno della famiglia. Se preferite nel contesto sociale. Buona lettura!

La leggenda delle disuguaglianze crescenti
di Luca Ricolfi | 26 aprile 2015 Il Sole 24 Ore

Da quanti anni lo sentiamo dire? Da quanti anni lo leggiamo sui giornali? Da quanti anni gli studiosi si affannano a ricordarcelo?Il mondo sta diventando sempre più diseguale, ci ripetono. Un po' ovunque le disuguaglianze stanno crescendo in modo esplosivo, o esponenziale, come si usa dire con abuso di linguaggio (“esponenziale” non significa veloce, ma semplicemente a tasso costante). E l'aumento delle disuguaglianze, nel giro di pochi anni, è anche diventato il principale imputato per la crisi che ci attanaglia dall'agosto del 2007.
Se la crescita si è fermata, ci dicono, è perché vi è stata una spaventosa crescita delle diseguaglianze.Ma è vero che le diseguaglianze stanno crescendo in modo così esplosivo? Il dossier della Fondazione David Hume, che analizza più di 50 anni di storia della diseguaglianza in quasi tutti i Paesi del mondo, fornisce ora una base di dati ampia e relativamente completa per provare a fornire qualche risposta (vedi le pagine 2-5 del giornale). Ed eccone alcune.
Se consideriamo il mondo come un unico Stato, e misuriamo il grado di diseguaglianza fra i cittadini del mondo, la diseguaglianza è molto cresciuta negli anni '80, ma ha smesso di crescere intorno al 1992, ed ha cominciato a diminuire sistematicamente a partire dal 2000. Dunque, nel XXI secolo la tendenza della diseguaglianza mondiale è alla diminuzione.La diseguaglianza fra i livelli di benessere delle nazioni, o diseguaglianza internazionale, ha invece smesso di crescere già intorno al 1990, e si sta riducendo a un ritmo molto rapido da circa un quarto di secolo.E le diseguaglianze interne ai vari Paesi del mondo? Qui tutto si può dire, tranne che esistano tendenze generali. La diseguaglianza interna sta crescendo in modo preoccupante in Cina (dal 1982) e in India (dal 2002), ma nel resto del mondo il grado medio di diseguaglianza, dopo aver raggiunto un massimo nel 1996, ha un andamento sostanzialmente piatto, frutto di movimenti molto complessi e diversi da Paese a Paese e da periodo a periodo.
La diseguaglianza, ad esempio, nei Paesi ex comunisti ha fatto un balzo in avanti nei primi anni '90, dopo la caduta del muro di Berlino, mentre in America latina è in costante diminuzione dall'inizio del XXI secolo.
E nelle società avanzate?
Qui, forse, incontriamo le maggiori sorprese. Se consideriamo l'insieme dei Paesi Ocse (più Singapore e Hong Kong), la tendenza principale della diseguaglianza è stata all'aumento fra gli anni '80 e gli anni '90, ma negli ultimi 10-15 anni non presenta una tendenza netta, e se proprio vogliamo trovarne una, è a una lievissima diminuzione. In alcuni Paesi (ad esempio il Giappone) prevale nettamente la tendenza all'aumento, in altri (ad esempio la Turchia) prevale quella alla diminuzione, in altri ancora non è possibile rintracciare alcuna tendenza sistematica.
Fra questi ultimi vi è anche l'Italia. Da noi è da vent'anni (dal 1993) che il grado di diseguaglianza (misurato con l'indice di Gini) oscilla intorno a 0.33. Un valore più basso della media (ponderata) dei Paesi Ocse (pari a 0.35 nel 2013), e decisamente più basso del valore (0.37) che l'indice aveva in Italia alla fine dei “gloriosi 30 anni”, quelli caratterizzati dall'espansione dello Stato sociale.
E negli anni della crisi?
Se guardiamo alle società avanzate, i dati disponibili, talora fermi al 2012 o al 2013, non consentono alcun racconto unitario, perché la dinamica della diseguaglianza varia considerevolmente non solo a seconda dei Paesi, ma anche in funzione del modo di misurare la diseguaglianza, che può riferirsi al reddito o alla ricchezza netta, a tutti gli strati o solo agli strati estremi (i super-ricchi e gli ultra-poveri). E tuttavia, fra le innumerevoli storie che emergono dai dati disponibili, ve n'è almeno una che si presenta con inquietante frequenza, quella che potremmo chiamare della “curva a V”. In parecchi Paesi (fra cui l'Italia) il profilo della diseguaglianza negli anni a cavallo della recessione 2008-2009 sembra essere stato prima calante e poi crescente, come se la crisi avesse prima penalizzato e poi premiato i ricchi. Difficile pensare che questo movimento, laddove si è manifestato, non abbia a che fare con il movimento degli indici azionari, prima calanti e poi crescenti.
Se questa lettura avesse qualche fondamento, sarebbe difficile non notare un paradosso. I progressisti sono ovunque schierati per le politiche di espansione monetaria, come il Quantitative Easing di Draghi, ma paiono non rendersi conto di un punto recentemente sottolineato da Pascal Salin, in uno dei libri più interessanti sulla lunga crisi di questi anni (“Tornare al capitalismo per evitare le crisi”, Rubbettino 2011): i tassi di interesse bassi inflazionano il valore degli asset (titoli e immobili), favoriscono la speculazione, e per questa via, premiano innanzitutto i livelli alti della gerarchia sociale. 
Insomma, dopo anni in cui la diseguaglianza aveva cessato di crescere, potrebbero essere proprio le politiche pensate per far ripartire la crescita a innescare un nuovo processo di aumento delle diseguaglianze, dopo quello degli anni della globalizzazione. È solo un'ipotesi, ma forse varrebbe la pena rifletterci su.

sabato 17 gennaio 2015

Corte di giustizia UE e «Outright Monetary Transactions» della BCE


Negli ultimi giorni tutti i quotidiani nazionali trattano la questione del programma della Banca Centrale europea (BCE) «Outright Monetary Transactions» (OMT) vale a dire, un programma da parte della BCE di acquisto di titoli del debito pubblico emessi dagli Stati dell’eurozona. Non scendo nel merito già ampiamente trattato da economisti e monetaristi. Se ne parla perché la Corte costituzionale tedesca  (Bundesverfassungsgericht - «BVerfG») è stata adita da vari politici, professori di diritto e di economia, un giornalista ed una ONG tedeschi (nel diritto tedesco il ricorso di persone alla Corte è possibile) mettendo in discussione la legittimità del programma OMT della BCE. Il rinvio del «BVerfG» è molto importante nel dialogo tra le Corti in Europa laddove si tratta del primo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE nella sua storia, dopo circa 60 anni di integrazione europea! Meglio tardi che mai. Peraltro anche la nostra Corte Costituzionale non è da meno giacché ha rinviato per la prima volta nella storia alla Corte UE nel 2007. I quotidiani non ne hanno neanche fatto menzione. Ma non è questo che voglio sottolineare. Mi piace, viceversa, attirare l'attenzione sul fatto che i quotidiani nazionali, e mi riferisco ai più importanti, hanno presentato titoli a caratteri cubitali come: «la Corte UE da il via libera al piano Draghi»; «la Corte UE ritiene compatibili con i Trattati UE  il programma OMT»; e tanti altri titoli del genere. Qual è il problema? Si tratta, come sempre d'altronde, di cattiva informazione (o ignoranza in materia?) su questioni che riguardano l'Unione europea. E' una battaglia (persa) che perseguo da anni. Infatti a evocare la compatibilità dell'OMT con i Trattati UE  è stato l’avvocato generale Cruz Villalón e non la Corte UE come erroneamente si afferma nei titoli. E' cosa diversa. Peraltro, qualche giornalista, nel testo dell'articolo, spiega che «il parere dell'avvocato generale di regola viene ripreso dalla Corte che non se ne discosta nella sua sentenza». E, pertanto, è ragionevole pensare alla prossima sentenza della Corte UE negli stessi termini dell'avvocato generale. Niente di più errato.  Non voglio scendere nel dettaglio tecnico sui ruoli dell'avvocato generale e della Corte (su cui rinvio all'approfondito studio del mio Amico e Collega Marco Borraccetti, L'avvocato generale nella giurisdizione dell'Unione europea, Napoli, Editoriale Scientifica,  2011), ma segnalare, ancora una volta, come l'informazione sull'Unione europea è assolutamente approssimativa se non erratae, quindi, fuorviante. E, in verità, l'Ue non ne ha bisogno, attese le campagne populiste di talune formazioni politiche europee (per carità legittime dal punto di vista democratico ma strumentali e fazione) non sempre coerenti con la realtà dei fatti.