giovedì 16 giugno 2016

Alcune considerazioni su BREXIT

Già da tempo, ma soprattutto in questi ultimi giorni, sui media non si parla altro di “Brexit” (e non potrebbe essere altrimenti considerata l’importanza della consultazione popolare) ossia del referendum britannico del 23 giugno p.v. che dovrà decidere se il Regno Unito (rimarrà “unito” dopo una eventuale Brexit? penso solo alla Scozia…) rimarrà nell’Unione europea (UE) Stato Membro a pieno titolo oppure se, dopo 42 anni circa, ne uscirà per volontà popolare. Con conseguenze prevedibili non soltanto per il Regno Unito ma anche per l’Unione europea e sul piano globale per i rapporti internazionali. In ogni caso parlare di Unione europea è sempre un fatto positivo, anche in questi termini, laddove la reputazione negativa dell’UE è da sempre appannaggio sia di populisti che cavalcano l’onda del malcontento (dovuto “solo” all’UE?), sia dei governi nazionali che utilizzano la facile demagogia politica per scaricare “all’esterno” eventuali responsabilità o errori di politica nazionale. Insomma una bella “valvola di sfogo”! Che però, a lungo andare, porta a quel malcontento generalizzato nei cittadini non sempre modificabile in pochi giorni. É ciò che sta accadendo in Gran Bretagna. Non è semplice modificare l’opinione pubblica in un mese laddove sono anni che i governi nazionali indicano ai propri amministrati l’UE come la causa di tutti i mali. Detto questo mi occupo, sul piano strettamente giuridico, dell’eventuale Brexit. L’uscita (o il recesso) di uno Stato membro dall’Unione europea non è cosa semplice. O meglio. Uno Stato non può uscirne sic et simpliciter, inviando all’Unione (Istituzioni e Stati membri) una mera lettera di volontà di recesso. Occorre rispettare regole e procedure previste dall’art. 50 del Trattato sull’Unione europea (TUE) così come modificato dall’ultima riforma di Lisbona entrata in vigore il 1° dicembre 2009. Afferma infatti l’art. 50, par. 2 che, lo ricordo, ha introdotto per la prima volta una norma esplicita in materia di abbandono dell’UE, “Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l'Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l'Unione. L'accordo è negoziato conformemente all'articolo 218, paragrafo 3 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Esso è concluso a nome dell'Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo”. Inoltre, i successivi paragg. 3 e 4 stabiliscono “I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell'accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica di cui al paragrafo 2, salvo che il Consiglio europeo, d'intesa con lo Stato membro interessato, decida all'unanimità di prorogare tale termine. E (…) “il membro del Consiglio europeo e del Consiglio che rappresenta lo Stato membro che recede non partecipa né alle deliberazioni né alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo riguardano”. Il complesso corpus di norme, ad una prima lettura, sembrerebbe incompatibile con il successivo art. 53 TUE e con l’art. 356 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) che, a me pare, indicano la natura irreversibile dell’UE (“Il presente trattato è concluso per una durata illimitata”). Ad ogni modo, al di là delle questioni giuridiche e dottrinali che non sono l’oggetto di queste osservazioni generali, per abbandonare l’UE lo Stato deve rispettare le regole e i tempi di cui all’art. 50 TUE. Si tratta di una procedura che vede coinvolti vari soggetti: istituzioni UE, Stati membri nel rispetto di procedure, maggioranze e tempi imposti. Ad una prima riflessione ci vorrebbero almeno due anni affinché l’”accordo di recesso” possa entrare in vigore sebbene i tempi possono essere più lunghi grazie alle previsioni di eventuali prororoghe. A differenza dell’”entrata” di un nuovo Stato (europeo) nell’Unione (art. 49 TUE), per l’”uscita” (recesso) l’accordo non è stipulato tra gli Stati Membri (procedura intergovernativa) bensì dalle istituzioni UE (procedura “comunitaria”) nel rispetto delle più generali regole di conclusione degli accordi internazionali (dell’UE con Stati terzi o organizzazioni internazionali) secondo il sopra citato art. 218 TFUE. Gli effetti concreti del recesso sarebbero, pertanto, riconducibili a: 1) perdita dello status di Stato membro e quindi mancanza di diritti e doveri “comunitari”; 2) dal che, estinzione dei rapporti giuridici dello Stato che diviene pertanto “terzo”. Una questione non contemplata dall’art. 50, ma che non riguarda l’eventuale Brexit, attiene all’unione economica e monetaria (UEM) e l’euro. Che sappiamo avere una disciplina speciale ma in ogni caso prevista, nella sua generalità, dai Trattati UE. Ad una prima considerazione il recesso ex art. 50 comporterebbe l’uscita dall’Unione europea nella totalità; e quindi anche dall’UEM. Non si può escludere, tuttavia, che, in ipotesi, uno Stato esca dall’UE ma voglia mantenere la moneta unica europea quanto meno petr un periodo transitorio. Ma, come detto, non è questo il caso dell’eventuale Brexit. In ultimo. L’irreversibilità del processo di integrazione europea deducibile dai trattati e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, sarebbe ricavabile anche dal quinto pagrafo del medesimo articolo 50 laddove si legge “Se lo Stato che ha receduto dall'Unione chiede di aderirvi nuovamente, tale richiesta è oggetto della procedura di cui all'articolo 49”. Come dire, se lo Stato dovesse ripensarci, non avrà nessun trattamento di favore; anzi si priproporranno le medesime regole e procedure previste per gli Stati terzi.