giovedì 26 settembre 2013

L'Unione europea apre una procedura d'infrazione sulla responsabilità civile dei giudici

L'Unione europea apre una procedura d'infrazione sulla responsabilità civile dei giudici

[Articolo ANSA consultabile suhttp://www.ansa.it/europa/notizie/rubriche/giustizia/2013/09/25/Ue-apre-infrazione-responsabilita-civile-giudici_9357170.html del 25 settembre 2013, pubblicato alle ore 17:16]

Una prima riflessione a caldo. E' una vecchia storia. Precisiamo però che la sentenza della Corte di giustizia di due anni fa, che io ho commentato brevemente su DUIT, e che nel mio profilo Facebook è stata ricordata , riguarda esclusivamente l'applicazione del diritto UE negli ordinamenti giuridici nazionali. La ratio si rifà alla più generale responsabilità dello Stato membro nei confronti dell'Union europea così come la Corte di giustizia l'ha elaborata nella sua sentenza nel caso italiano "Francovich" del 1991 e poi specificata meglio nella giurisprudenza successiva. In particolare, da ultimo, le sentenze (oramai storiche) Traghetti del Mediterraneo, Lucchini, Olimpiclub. In queste ultime sentenze la Corte UE ha specificato la nozione di "Stato" ai sensi del diritto UE. E' una nozione "comunitaria" non nazionale. Per Stato (membro) deve intendersi qualsiasi potere dello Stato sia legislativo, sia esecutivo sia giudiziario. E' molto semplice. Ovviamente sono da ricomprendere anche enti territoriali e enti pubblici. Che dire? Se una giurisdizione nazionale di ultima istanza, ad esempio, e per semplificare, Corte di Cassazione e Consiglio di Stato, non rispettano un obbligo derivante dai Trattati UE commettono un illecito comunitario le cui conseguenze vanno attribuite, sul piano UE, allo Stato. Quindi correttamente procedura di infrazione per non aver adempiuto l'Italia ad un obbligo comunitario. Si badi bene obblighi in capo a 28 Stati membri e non soltanto all'Italia. Non facciamo vittimismo spicciolo! Pertanto la procedura di infrazione non solo è corretta ma, altresì, essendo una seconda sentenza per la medesima infrazione [1) inadempimento a obblighi del Tratatto e 2) prima sentenza del 2011 non eseguita) verranno quasi certamente stabilite dalla Corte UE su proposta della Commissione, salate sanzioni pecuniarie. Direi salatissime.
Breve nota sulla responsabilità dei magistrati nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea - See more at: http://www.duitbase.it/note-e-commenti/117-breve-nota-sulla-responsabilita-dei-magistrati-nella-giurisprudenza-della-corte-di-giustizia-dellunione-europea#sthash.OrmBWdfM.dpuf

Rimando al mio breve commento su DUIT del 29 novembre 2011 al seguente indirizzo:
http://www.duitbase.it/note-e-commenti/117-breve-nota-sulla-responsabilita-dei-magistrati-nella-giurisprudenza-della-corte-di-giustizia-dellunione-europea
La recente sentenza della Corte di giustizia UE (d'ora in avanti Corte UE) del 24 novembre 2011 nella causa C-379/10 sulla responsabilità (civile) dei magistrati mostra, in primo luogo, che non vi è ambito del diritto nazionale che non può essere interessato dal diritto dell'Unione europea. Anche nei gangli più intimi delle sovranità statali come l'ordinamento giudiziario, in specie penale, il diritto UE si pone come "interfaccia" dei diritti nazionali (e delle procedure giudiziarie), sì da comportare un'armonizzazione sostanziale delle discipline nazionali ovvero, a voler minimizzare, quanto meno un'interpretazione conforme di queste ultime. La sentenza mostra altresì una profonda disparità di vedute sulla fattispecie della Corte UE e della Corte di Cassazione.
Nel caso in commento, il sistema nazionale italiano di responsabilità civile dei giudici è stato ritenuto dalla Corte UE non conforme al diritto dell'Unione. Ma soprattutto non idoneo a tutelare gli eventuali danni provocati ai singoli per violazione del diritto UE. In particolare, la sentenza richiama il principio, consolidato, della responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell'Unione, in questa circostanza, da parte di un organo giurisdizionale nazionale di ultima istanza. La sentenza della Corte UE giunge a seguito di un ricorso per inadempimento (c.d. "procedura di infrazione") presentato dalla Commissione europea ai sensi dell'art. 258 TFUE. Se è vero che la sentenza è destinata ad avere effetti importanti nel nostro ordinamento giuridico, è anche vero che non si tratta di giurisprudenza nuova. Anzi il principio generale di responsabilità dello Stato membro affonda le radici nella storica sentenza Francovich del 19 novembre 1991, cause C-6/90 e C-9/90; da quel momento una costante giurisprudenza della Corte UE ne ha perfezionato alcuni profili ma non ne ha modificato la sostanza. Così da giungere all'affermazione che la responsabilità dello Stato può essere provocata da qualsiasi organo nazionali indipendentemente se del potere legislativo, esecutivo, giudiziario (sentenza 30 settembre 2003, causa C‑224/01, Köbler). Nel dispositivo della sentenza la Corte afferma che: "La Repubblica italiana, escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell'Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall'organo giurisdizionale medesimo, e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell'art. 2, commi 1 e 2, della legge 13 aprile 1988, n. 117, sul risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell'Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado".
Occorre ricordare che secondo costante giurisprudenza della Corte, tre sono le condizioni in presenza delle quali uno Stato membro è tenuto al risarcimento dei danni causati ai singoli per violazione del diritto dell'Unione al medesimo imputabile, vale a dire che la norma giuridica violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli, che si tratti di violazione sufficientemente caratterizzata e, infine, che esista un nesso causale diretto tra la violazione dell'obbligo incombente allo Stato e il danno subito dai soggetti lesi (v. sentenze 5 marzo 1996, cause riunite C‑46/93 e C‑48/93, Brasserie du pêcheur e Factortame; 4 luglio 2000, causa C‑424/97, Haim; e di recente 24 marzo 2009, causa C‑445/06, Danske Slagterier). Inoltre la Corte nella sentenza 3 giugno 2006, causa C‑173/03, Traghetti del Mediterraneo, ha affermato che il diritto dell'Unione osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell'Unione imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulti da un'interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale (punti 33-34). Pertanto, la Commissione europea contesta alla Repubblica italiana di escludere, per effetto dell'art. 2, secondo comma, della legge n. 117/88, qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni causati a singoli derivanti da una violazione del diritto dell'Unione compiuta da uno dei suoi organi giurisdizionali di ultimo grado, qualora tale violazione derivi dall'interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione dei fatti e delle prove effettuate dal giudice medesimo (punto 31).
In effetti tale disposizione costituisce una clausola di esclusione di responsabilità autonoma rispetto al disposto di cui ai commi 1 e 3 del medesimo art. 2. ai sensi dell'art. 2 della legge n. 117/88, la normativa italiana in materia di responsabilità dello Stato per i danni causati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie prevede, da un lato, ai commi 1 e 3 di tale articolo, che tale responsabilità è limitata ai casi di dolo, di colpa grave e di diniego di giustizia, e, dall'altro, al secondo comma dell'articolo stesso, che «non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove». Sicché la responsabilità resta esclusa, in via generale, nell'ambito dell'interpretazione del diritto e della valutazione dei fatti e delle prove. Dalla giurisprudenza della Corte UE, tuttavia, emerge che ancorché non può escludersi che il diritto nazionale precisi i criteri relativi alla natura o al grado di una violazione, criteri da soddisfare affinché possa sorgere la responsabilità dello Stato, in un'ipotesi siffatta tali criteri non possono imporre requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di una manifesta violazione del diritto vigente (cfr. sentenze citate).
L'Italia pertanto dovrebbe modificare la legge 117/88 che presenta limiti oggettivi e soggettivi al risarcimento dei danni ai singoli. Nel frattempo i giudici nazionali sono tenuti a disapplicare le norme della legge 117/88 e garantire in ogni caso il risarcimento dei danni ai singoli. Il diritto UE prevede in questi casi la non applicazione della norma nazionale incompatibile e non l'abrogazione diretta che rimane di competenza statale. Vero è, tuttavia, che lasciare siffatta norma vigente ed applicabile al di fuori del diritto UE può essere una via perseguita, pena però una evidente disparità di trattamento tra cittadini ed una evidente discriminazione. Potrebbe essere invece un'ulteriore occasione per riformare e ammodernare un ordinamento giuridico non sempre volto alla tutela dei diritti dei singoli.
- See more at: http://www.duitbase.it/note-e-commenti/117-breve-nota-sulla-responsabilita-dei-magistrati-nella-giurisprudenza-della-corte-di-giustizia-dellunione-europea#sthash.OrmBWdfM.dpuf

martedì 17 settembre 2013

Sul regime linguistico dei concorsi nell'Unione europea


La sentenza del 12 settembre 2013 della quinta sezione del Tribunale dell'Unione europea, in causa T218/09 - che lo ricordo è il primo grado di giurisdizione per i ricorsi presentati dalle persone (fisiche e giuridiche) in materia di diritto comunitario – [pertanto in questa occasione non parliamo della Corte di giustizia Ue che è la suprema giurisdizione], ha deciso di annullare, come richiesto dall'Italia, alcuni bandi di concorso nelle istituzioni e organi dell'Unione europea perché redatti, nelle versioni integrali, solo in inglese, francese e tedesco. E' questa una vecchia storia che già annovera una cospicua giurisprudenza. La sentenza che si commenta è l'ultima in ordine di tempo.
In argomento si veda il precedente commento della collega Marina Castellaneta su "Il Sole 24 Ore" : http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-11-27/roma-vince-battaglia-contro-202657.shtml?uuid=AbmQLz6G&fromSearch
Il ricorso verte in primis sul regime linguistico dei bandi di concorsi generali per l’assunzione di personale presso le istituzioni o gli organi dell'Unione europea.  In particolare attiene alla scelta della lingua straniera delle prove fra le lingue lingue ufficiali dell'Unione europea. Si tratta di un ricorso di annullamento dei bandi dei concorsi generali EPSO/AST/91/09, per la costituzione di un elenco di riserva per l’assunzione di assistenti (AST 3) nel settore «Offset», e EPSO/AST/92/09, per la costituzione di un elenco di riserva per l’assunzione di assistenti (AST 3) nel settore «Prestampa», pubblicati nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 18 marzo 2009 (GUUE C 63 A, pag. 1Per meglio specificare si tratta, da un lato, del bando di concorso generale EPSO/AST/91/09, per la costituzione di un elenco di riserva per l’assunzione di assistenti (AST 3) nel settore «Offset», destinato a coprire i posti vacanti nell’ambito del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni, e, dall’altro, del bando di concorso generale EPSO/AST/92/09, per la costituzione di un elenco di riserva per l’assunzione di assistenti (AST 3) nel settore «Prestampa», destinato a coprire i posti vacanti nell’ambito del Parlamento europeo, del Consiglio dell’Unione europea, della Commissione europea, del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni. Al titolo «III. Condizioni di ammissione» dei bandi di concorso citati (in prosieguo: i «bandi di concorso controversi»), era previsto, tra l’altro, che i candidati dovessero possedere una conoscenza approfondita di una delle lingue ufficiali dell’Unione europea e una conoscenza soddisfacente del tedesco, dell’inglese o del francese («[s]econda lingua»). L'articolo 55 trattato sull'Unione europea (TUE) sancisce che sono lingue ufficiali dell'Unione europea le lingue nazionali degli Stati membri. Inoltre, la Dichiarazione n. 16 relativa all'articolo 55, paragrafo 2 allegata al TUE afferma che occorre "realizzare l'obiettivo di rispettare la ricchezza della diversità culturale e linguistica dell'Unione. In questo contesto la conferenza conferma l'importanza che l'Unione annette alla diversità culturale dell'Europa e la particolare attenzione che essa continuerà a prestare a queste e alle altre lingue". Cisì che, la Repubblica italiana deduce la violazione degli articoli 1 e 6 del regolamento n. 1, del Consiglio, del 15 aprile 1958, che stabilisce il regime linguistico della Comunità economica europea (GU 1958, 17, pag. 385), degli articoli 18 e 342 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), dell’articolo 22 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dei principi di non discriminazione, di motivazione, del multilinguismo e di tutela del legittimo affidamento e afferma, sostanzialmente, che la Commissione non poteva limitare a sole tre lingue la scelta della seconda lingua per le prove dei concorsi. Secondo il Tribunale Ue sebbene l’articolo 1, paragrafo 1, lettera f), dell’allegato III dello Statuto dei funzionari dell'Unione europea prevede che il bando di concorso possa specificare le conoscenze linguistiche richieste per la particolare natura dei posti da coprire, da tale disposizione non discende un’autorizzazione generale a derogare alle prescrizioni dell’articolo 1 del regolamento n. 1, il quale designa 24 lingue non soltanto come lingue ufficiali, ma anche come lingue di lavoro delle istituzioni dell’Unione. Peraltro, l’articolo 1 quinquies, paragrafo 1, dello Statuto stabilisce che, nell’applicazione dello Statuto, è vietata qualsiasi discriminazione fondata, in particolare, sulla lingua. A norma del paragrafo 6, prima frase, del medesimo articolo, qualsiasi limitazione dei principi di non discriminazione e di proporzionalità deve essere oggettivamente e ragionevolmente giustificata e deve rispondere a obiettivi legittimi di interesse generale nel quadro della politica del personale. Alla luce delle considerazioni che precedono Il Tribunale Ue ha annullato i bandi di concorso controversi. Inoltre, la Repubblica italiana, nella sua lettera del 21 marzo 2013 e durante l’udienza, ha sollevato il problema degli effetti di tale annullamento sugli elenchi di riserva risultanti dai concorsi. Di conseguenza, il Tribunale considera che, al fine di preservare il legittimo affidamento dei candidati prescelti, occorre non mettere in discussione i suddetti elenchi di riserva. Che aggiungere alle parole del Tribunale. Una battaglia vinta dall'Italia sul riconoscimento dell'italiano come lingua dei bandi di concorso nella Ue. Ma anche per i cittadini italiani rispetto della parità di trattamento con con i cittadini degli altri Stati membri. Nel rispetto del principio di non discriminazione e dell'applicazione concreta della cittadinanza europea.

venerdì 13 settembre 2013

Una precisazione sul mio post "Ancora sul'intervento militare in Siria (Parte II)"


Il mio post ha tratto ispirazione da un interessante e documentato articolo di Ludovica Poli pubblicato nel SIDI Blog in data 5 settembre cui si rimanda per espressa richiesta.
 http://www.sidi-isil.org/sidiblog/?p=481

domenica 8 settembre 2013

Ancora sul'intervento militare in Siria (Parte II).


Queste ulteriori riflessioni sull'intervento militare in Siria scaturiscono dalle ultime dichiarazioni dell'amministrazione USA. Forse saranno le ultime in tempo di pace. L'intervento "punitivo" si farà dunque ma su quali basi giuridiche, morali, etiche? Esiste nel diritto internazionale un generale "diritto di punire" e/o una "responsabilità di proteggere"? Occorre riportare il discorso sui canali corretti.  Non esiste una sorta di "licenza di uccidere" nelle norme internazionali bensì, piuttosto, un dovere in capo alla comunità internazionale (Stati ed organizzazioni internazionali) di protezione della popolazione civile laddove all'interno dello Stato siano violati i diritti umani e le libertà fondamentali in modo grave e persistente. Dopo aver esperito tutte le misure politico-diplomatiche possibili e constatato che lo Stato non intende terminare le sue pratiche contestate, previa autorizzazione del Consiglio di Sicurezza ONU, è possibile individuare una coalizione per l'intervento armato. Si badi bene, però, con azioni mirate su obiettivi politico-militari da eseguirsi nel più breve tempo possibile e, se possibile, senza spargimento di sangue (!). Non so come sia possibile un intervento di tal fatta. Un'altro aspetto che va considerato è l'effetto dell'intervento armato. Negli ultimi esempi (Iraq, Libia) gli interventi hanno comportato il "cambio di regime" nel governo del Paese, spesso portando avanti , in verità, interessi più legati agli Stati membri della coalizione che ai diritti della popolazione civile locale. In qualche caso, tuttavia, il cambio di regime ha dato i suoi frutti positivi. Nelle ultime dichiarazioni (USA e Francia) emerge il solo obiettivo di "punire" il regime di Bashar al-Assad con un intervento unilaterale (della sola USA? + Francia, Turchia, Arabia Saudita?); non emerge l'intento umanitario talvolta sbandierato. Ciò che emerge, almeno prima facie, è l'intento di punire Damasco per aver oltrepassato il limite della "red line" imposta dal Presidente Obama sull'utilizzo delle armi chimiche. Dimensione punitiva del tutto estranea alla "responsabilità di proteggere". Non troverebbe un fondamento di legalità ai sensi del diritto internazionale, non sussistendo, a quanto consta, una norma che consenta di sanzionare la violazione di regole internazionali attraverso l’uso della forza armata al di fuori delle ipotesi consentite dalla Carta delle Nazioni Unite (si veda il mio precedente post). Un intervento unilaterale sarebbe un colpo basso non solo alla credibilità del diritto internazionale, ma anche per l’intero sistema di sicurezza delle Nazioni Unite che, anche a fronte della solerzia dimostrata da realtà regionali come l’Unione Europea e la stessa Lega Araba, ha più che mai bisogno di dimostrare una rinnovata capacità di funzionamento per confermare la propria centralità in materia di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. E a questo proposito ricordo che sono anni ormai che si parla di riforma dell'ONU ma senza addivenire ad una soluzione giacché gli Stati membri più rappresentativi, detentori del diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza, non pare abbiano la volontà diestendere con altri i loro privilegi che lo Statuto di Sanfrancisco del 1945 loro attribuisce. Ma erano tempi divesi, dopo la fine della II guerra mondiale. Dopo circa settant'anni di applicazione della Carta ONU sembrerebbe giunto il momento di una riforma complessiva dell'intero sistema di sicurezza ONU. Ma le sovranità degli Stati membri sono in agguato….

mercoledì 4 settembre 2013

Ancora sull'intervento militare in Siria



A proposito della sovranità dello Stato nell'Unione europea scrissi tempo addietro che "l'esercizio più alto della sovranità da parte di uno Stato è quello di cederla" (Temi di diritto dell'Unione europea, Milano, Giuffrè, 2008). Oggi mutatis mutandis potremmo rilevare che la forza (non militare) di uno Stato si misura con l'esercizio della sua sovranità: più è importante uno Stato (sul piano delle relazioni internazionali, politiche, commerciali, economiche, ecc.) più l'uso della forza come coercizione dell'«altro» deve essere minima. Ed ovviamente nella cornice delle regole internazionali. Ricordo che l'art. 2, parag. 4 dello Statuto ONU (inserito nel fondamentale Capitolo I "Fini e Principi") stabilisce che gli Stati membri "devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall'uso della forza, sia contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con I fini delle Nazioni Unite". Inoltre, il seguente art. 4 (che riguarda l'adesione di uno Stato all'ONU) sancisce che "Possono diventare Membri delle Nazioni Unite tutti gli Stati amanti della pace che accettino gli obblighi del presente Statuto e che, a giudizio dell'Organizzazione, siano capaci di adempiere tali obblighi e disposti a farlo". Tuttavia il Consiglio di Sicurezza che, lo ricordo, detiene (a nome degli Stati membri) la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale può, ai sensi dell'art.  42, "intreprendere con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale". La recente posizione dell'ONU resa nota dal Segretario Generale lascia intravedere una certa neutralità dell'Organizzazione almeno fino a quando non si sarà accertata con chiarezza chi ha usato le armi chimiche, atteso senza ombra di dubbio che sono realmente state utilizzate. Il Consiglio di Sicurezza non autorizzerà l'intervento giacchè è nota la posizione contraria di Russia e Cina, entrambi Stati membri "privilegiati" (assieme a USA, Francia e Regno Unito) con diritto di veto. Pertanto qualsiasi intervento di uno Stato o più Stati al di fuori della cornice ONU è da ritenere illegittimo e non conforme allo Statuto ONU. Ma come conciliare i tempi (lunghi) della diplomazia preferendo l'opzione politica a quella militare (più breve) con l'esigenza di far terminare il massacro di civili? Può parlarsi già di genocidio? Non è facile conciliare le due opzioni; la rapidità della soluzione militare, tuttavia, dovrebbe evitare altro spargimento di sangue innocente; quasi impossibile, ancorchè si parli di missili intelliggenti e quant'altro indirizzati su obiettivi militari ben precisi. In ogni caso ci saranno nuovi morti: come dire che i morti non sono tutti uguali (civili o militari che siano)! Il Congresso USA potrebbe farci una sorpresa come il Parlamento britannico, ma non ci spero. E allora come si può uscire da questa impasse peraltro determinata dalla nota "red line" del Presidente Obama? Buon senso (politico) ed esercizio di una sovranità mite potrebbere essere la via maestra. L'equazione siriana ha troppe variabili che potrebbero essere definite "impazzite" o non controllabili; soprattutto durante l'opzione militare. In Siria sono in gioco la stabilità del Medio Oriente (con la questione israelo-palestinese in primo luogo), del Nord Africa e dei paesi del Golfo; inoltre le vie del petrolio, i rapporti tra sunniti e sciiti (cioè la pace del mondo islamico) nonchè I rapporti regionali con l'Europa e gli Stati Uniti. Occorre meditare; ricordo però che mentre si medita la diplomazia è al lavoro 24 ore su 24 e chissà che il buon senso e l'esercizio di sovranità miti possano raggiungere un compromesso ed una posizione comune. In questo momento storico la guerra (correggo: l'intervento militare) non risolve; anzi fornisce l'opportunità di rivendicazioni e riapre vecchie ferite proprie di quella regione.