sabato 20 dicembre 2014

Alcune considerazioni generali (non politiche nè faziose nè strumentali) sull'elezione del Presidente della Repubblica

E' già iniziata la "bagarre" governo-parlamento sulla prossima e imminente elezione del futuro Presidente della Repubblica Italiana. Ai sensi dell'art. 87 "Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale. Può inviare messaggi alle Camere. Indice le elezioni delle nuove Camere e ne fissa la prima riunione. Autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo. Promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti. Indice il referendum popolare nei casi previsti dalla Costituzione. Nomina, nei casi indicati dalla legge, i funzionari dello Stato. Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra, l'autorizzazione delle Camere. Ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere. Presiede il Consiglio superiore della magistratura. Può concedere grazia e commutare le pene. Conferisce le onorificenze della Repubblica". Queste le prerogative generali del Presidente. Ma: l'art. 88 ricorda che: "Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse. Non può esercitare tale facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato, salvo che essi coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura". Inoltre:  secondo l'art. 89 "Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità. Gli atti che hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei ministri". Una serie di "pesi e contrappesi" di "checks and balances" tipiche dello Stato costituzionale a presidio della democrazia e del buon funzionamento costituzionale dello Stato e della sua forma di governo. Inoltre, ai sensi dell'art. 139 "La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale". Quindi che aggiungere. La persona (il cittadino) che può essere eletto Presidente della Repubblica può essere chiunque; l'unico limite è posto dall' art. 84 che sancisce che "Può essere eletto Presidente della Repubblica ogni cittadino che abbia compiuto cinquanta anni di età e goda dei diritti civili e politici". Anche un non politico dunque; proveniente dal mondo della cultura, della scienza, sempre che rappresentativo del nostro Paese, delle nostre tradizioni, della nostra cultura (delle nostre culture?); sempre che dia tutte le garanzie di indipendenza, imparzialità e autonomia che la Costituzione richiede. Inoltre sia di specchiata moralità e rappresenti la Nazione in conformità con il giuramento alla bandiera previsto dall'art. art. 91 (Il Presidente della Repubblica, prima di assumere le sue funzioni, presta giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione dinanzi al Parlamento in seduta comune). Quanto alla moralità richiesta non ci sarebbe bisogno di una norma costituzionale ma, direi, una norma etica, di buon senso. Il Presidente rappresenta l'unità nazionale, la garanzia degli equilibri costituzionali al fine di non fare prevalere un potere sull'altro. Pertanto, così come "Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi" (art. 54, primo comma); a maggior ragione "Ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle, con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge (art. 54, secondo comma). E il Presidente della Repubblica è il primo cittadino!

domenica 9 novembre 2014

Conflitto tra supreme Corti (Corte internazionale di giustizia (ONU) e Corte costituzionale italiana) in materia di immunità degli Stati dalla giurisdizione e principi fondamentali nella recentissima sentenza Corte cost. n. 238/2014. Risarcimenti per danni a seguito di crimini di guerra. Controversia Italia-Germania.


La sentenza della Corte costituzionale n. 238/2014 (Presidente e Relatore-Redattore Giuseppe Tesauro) appare a dir poco rivoluzionaria, quasi "sovversiva" (in senso positivo secondo il mio punto di vista). Per vari motivi che brevemente (e non senza difficoltà) vado a spiegare. Rinviando a coloro che sono maggiormente interessati 1) al sito della Corte costituzionale per il testo integrale della sentenza e, 2) ai tempestivi commenti di Lorenzo Gradoni e Pasquale De Sena nel Blog SIDI (http://www.sidi-isil.org/sidiblog). Alla base del giudizio stanno i giudizi di legittimità costituzionale promossi dal Tribunale di Firenze in ordine all’art. 1 della legge 17 agosto 1957, n. 848 (Esecuzione dello Statuto delle Nazioni Unite, firmato a San Francisco il 26 giugno 1945) e dell’art. 1 [recte: art. 3] della legge 14 gennaio 2013, n. 5 (Adesione della Repubblica italiana alla Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni, firmata a New York il 2 dicembre 2004, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno. Più nello specifico, il Tribunale di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale: 1) della «norma prodotta nel nostro ordinamento mediante il recepimento, ai sensi dell’art. 10, primo comma, Cost.», della consuetudine internazionale accertata dalla Corte internazionale di giustizia (CIG) nella sentenza del 3 febbraio 2012, nella parte in cui nega la giurisdizione nelle azioni risarcitorie per danni da crimini di guerra commessi iure imperii dal Terzo Reich nello Stato del giudice adito; 2) dell’art. 1 della legge 17 agosto 1957, n. 848 (Esecuzione dello Statuto delle Nazioni Unite, firmato a San Francisco il 26 giugno 1945), nella parte in cui, recependo l’art. 94 dello Statuto dell’ONU, obbliga il giudice nazionale ad adeguarsi alla pronuncia della CIG quando essa ha stabilito l’obbligo del giudice italiano di negare la propria giurisdizione nella cognizione della causa civile di risarcimento del danno per crimini contro l’umanità; 3) dell’art. 1 (recte: art. 3) della legge 14 gennaio 2013 n. 5 (Adesione della Repubblica italiana alla Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni, firmata a New York il 2 dicembre 2004, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno), nella parte in cui obbliga il giudice nazionale ad adeguarsi alla pronuncia della CIG anche quando essa ha stabilito l’obbligo del giudice italiano di negare la propria giurisdizione nella cognizione della causa civile di risarcimento del danno per crimini contro l’umanità, commessi iure imperii dal Terzo Reich nel territorio italiano, in riferimento agli artt. 2 e 24 della Costituzione. Semplificando, la questione ruota intorno agli artt. 2 e 24 della Costituzione italiana. "Le richiamate norme vengono censurate in riferimento agli artt. 2 e 24 Cost., in quanto, impedendo l’accertamento giurisdizionale e l’eventuale condanna delle gravi violazioni dei diritti fondamentali subìte dalle vittime dei crimini di guerra e contro l’umanità, perpetrati sul territorio dello Stato italiano, investito dall’obbligo di tutela giurisdizionale, ma commessi da altro Stato, anche se nell’esercizio dei poteri sovrani (iure imperii), contrasterebbero con il principio di insopprimibile garanzia della tutela giurisdizionale dei diritti, consacrato nell’art. 24 Cost., il quale è principio supremo dell’ordinamento costituzionale italiano ed in quanto tale costituisce limite all’ingresso sia delle norme internazionali generalmente riconosciute, ex art. 10, primo comma, Cost., che delle norme contenute in trattati istitutivi di organizzazioni internazionali aventi gli scopi indicati dall’art. 11 Cost. o derivanti da tali organizzazioni".  Si tratta pertanto di valutare quale norma deve prevalere tra la consuetudine internazionale, il diritto pattizio (Statuto ONU e Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni) e principi inviolabili della Costituzione quali, nel nostro caso, la garanzia di una tutela giurisdizionale effettiva. La sentenza, seppur "contestataria", altro non intende fare se non garantire un adeguato livello di tutela dei diritti individuali, ossia, garantire il risarcimento dei danni subìti a seguito di crimini di guerra ancorché il diritto internazionale – in particolare la richiamata sentenza della CIG del 3 febbraio 2012 – neghi questa possibilità nel rispetto dell'immunità degli Stati dalla giurisdizione. La questione non è nuova dinanzi alle Corti. Ricordo che anche la Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo con la recente sentenza Al Dulimi del 26 novembre 2013 e già la Corte di giustizia dell'Unione europea nel caso Kadi del 3 settembre 2008 avevano preso posizione nel senso della prevalenza dei diritti fondamentali su altre norme che impedivano l'esecuzione di quei diritti. In effetti, la Corte costituzionale, nella fattispecie, ha messo in evidenza la carente democraticità del sistema ONU in particolare e dell'ordinamento internazionale in generale; aspetto questo che non può comprimere o ablare il diritto fondamentale della persona alla tutela giurisdizionale effettiva. A me pare che una cultura dei diritti umani si stia assestando nei gangli più intimi degli ordinamenti statali, comportando così una evoluzione di taluni ordinamenti ancorati a logiche diplomatiche non sempre rispondenti al contesto nel quale si opera. Soprattutto se si considera che la tutela dei diritti fondamentali è un capitolo importante e fondamentale del diritto internazionale. E proprio per questo, non appare più prorogabile la netta separazione a tutt'oggi evidente tra diritto internazionale "classico" (Stati) e diritto internazionale dei diritti umani (individui): questa sentenza a mio avviso ha un valore non soltanto giuridico ma anche pedagogico nella prospettiva testé indicata. E' un'occasione unica che la CIG e l'intero sistema ONU non possono lascarsi scappare.

giovedì 18 settembre 2014

Il referendum in Scozia e l'eventuale secessione nella prospettiva dell'Unione europea.



Oggi 4,3 milioni di scozzesi vanno al voto referendario per votare se restare con il Regno Unito oppure staccarsi in modo definitivo e creare uno Stato indipendente. Tecnicamente si tratta di "secessione" secondo il diritto internazionale. Le motivazioni sono molteplici e non sono oggetto di queste riflessioni. Un dato è però chiaro: le giustificazioni che spingono i secessionisti sono di natura culturale, ideologica, politica ed economica; un bel melting pot. Al di là del fatto emozionale, ciò che interessa segnalare è l'insieme delle conseguenze giuridiche che deriverebbero dalla vittoria dei secessionisti ai quali non può essere negato, va ricordato, manifestare il proprio pensiero (e voto) all'interno di una democrazia compiuta e consolidata come è quella britannica. Ricordo che la secessione non va letta soltanto in senso negativo e disastroso: ad esempio in Europa, nella divisione della Cecoslovacchia, l'indipendenza nazionale è stata gestita civilmente e senza traumi, sia sul piano interno sia su quello internazionale ed europeo. Entrambi gli Stati che ne derivarono sono membri in Europa dell'Unione europea e della Nato. Quid iuris sul versante del diritto dell'Unione europea (UE)? La Scozia  indipendente subentrerebbe sic et simpliciter nell'UE? Nell'Unione economica e monetaria (UEM) e nell'euro? Il distacco della Scozia dalla Gran Bretagna pone alcune questioni preliminari di diritto internazionale. In primo luogo la soggettività  internazionale della Scozia vale a dire il suo riconoscimento da parte della comunità internazionale. Va valutato se il nuovo Stato (organizzazione di governo in tutte le sue articolazioni) effettivamente detiene l'esercizio del potere di governo sulla comunità umana stanziata sul territorio de quo, che si definirebbe eveidentemente scozzese. Questo il primo step. Successivamente il nuovo governo (insediato e riconosciuto) dopo aver risolto le questioni "interne" può chiedere ex novo di aderire alle organizzazioni internazionali quali ONU, Nato e, da ultimo, l'UE giacchè nel diritto internazionale, nella successione degli Stati, vige la regola della cc.dd. "tabula rasa". Vale a dire non c'è continuità degli impegni internazionali sottoscritti dal precedente soggetto internazionale. L'articolo 49 TUE stabilisce le regole per l'adesione di nuovi Stati "europei" all'Unione. Per Stato "europeo" si intende non soltanto il dato geografico (che pure è rilevante), bensì la presenza di un insieme di requisiti, di valori comuni, di idee, di valori culturali che formano il DNA dello Stato che chiede di aderire all'UE. Ad esempio al Regno del Marocco nel 1987 non fu accettata la sua richiesta di adesione all'ora Comunità economica europea. Lo Stato richiedente deve rispettare, pertanto, i valori "della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini" (art. 2 TUE). Ulteriore condizione di accesso all'UE è il rispetto dei criteri cc.dd. "di Copenaghen", che prendono il nome dalla sede del Consiglio europeo nel quale nel 1993 furono decisi, che sono sostanzialmente 3 + 1. Il criterio politico richiama i valori dell'art. 2 TUE più la stabilità di governo (c'è bisogno di istituzioni stabili che governino in un sistema politico democratico); in questo senso, l'adesione dello Stato al Consiglio d'Europa (da non confondere con le istituzioni UE) ed alla Convenzione sui diritti umani è fortemente richiesta. Il criterio economico postula un'economia (sociale) di mercato capace di competere sul piano della concorrenza internazionale in un regime di liberalizzazioni controllate (antitrust). Il criterio giuridico o dello "dell'acquis comunitario" che richiede la capacità dello Stato di integrare nel proprio ordinamento giuridico tutto il diritto dell'UE esistente (dagli anni '50 ad oggi); accettando insomma diritti ed obblighi a parità con gli altri Stati membri. Poi la prassi ha evidenziato un 4° criterio: ossia la capacità da parte dell'Unione europea di assorbire nuovi Stati europei non alterando il ritmo e l'andamento coerente dell'integrazione europea. Credo che la Scozia già oggi sia pressochè in regola con suddetti parametri. La procedura di adesione, tuttavia, non è semplice e può durare anche molti anni (si pensi alla Turchia). Dopo una fase che potremmo definire interna all'UE (fase comunitaria) – si pensi ai pareri di Parlamento europeo, Consiglio e Commissione – si passa alla fase intergovernativa. Afferma l'art. 49, secondo comma, TUE "Le condizioni per l'ammissione e gli adattamenti dei trattati su cui è fondata l'Unione, da essa determinati, formano l'oggetto di un accordo tra gli Stati membri e lo Stato richiedente. Tale accordo è sottoposto a ratifica da tutti gli Stati contraenti conformemente alle loro rispettive norme costituzionali".  Si tratta quindi di un accordo internazionale che per entrare in vigore necessita della ratifica da parte di tutti gli Stati membri. Vige pertanto il regime dell'unanimità. Qualora i fautori della secessione avessero la meglio, è auspicabile una transizione democratica e il più possibile indolore, nel rispetto della democrazia e dell'autodeterminazione dei popoli.

mercoledì 27 agosto 2014

Presidenza UE e semestre europeo


Si è molto enfatizzato sulla presidenza italiana (1° luglio-31 dicembre 2014) del Consiglio dell'Unione europea (anche Consiglio UE) senza spiegare, però, di cosa si tratti in sostanza. Peraltro, taluni confondono, in modo grave, la presidenza di turno con il c.d. "semestre europeo". A noi studiosi della materia spetta il compito di chiarire (sperando in un futuro di avere una informazione migliore…). In primo luogo occorre chiarire che si parla del Consiglio UE (vale a dire l'istituzione che riunisce periodicamente i rappresentanti dei governi nazionali "a livello ministeriale" e secondo la materia all'ordine del giorno – ad es. Consiglio "ecofin"; Consiglio agricoltura; Consiglio affari generali ecc.) e non del Consiglio europeo che riunisce i Capi di Stato e di governo dell'UE. Spesso i mass media confondono il Consiglio UE con il Consiglio europeo (talvolta anche con il Consiglio d'Europa che è tutt'altra cosa). Gli Stati membri che esercitano la presidenza durante ciascun semestre, presiedono le riunioni e garantiscono la continuità dei lavori dell'UE in seno al Consiglio UE. Lo Stato "presidente" però collabora strettamente a gruppi di tre, chiamati "trio". Questo sistema è stato introdotto dal trattato di Lisbona nel 2009. Il trio fissa obiettivi a lungo termine e prepara un programma comune che stabilisce i temi e le questioni principali che saranno trattati dal Consiglio in un periodo di 18 mesi. Sulla base di tale programma, ciascuno dei tre paesi prepara il proprio programma semestrale più dettagliato. Il trio di presidenza attuale è formato dalle presidenze italiana, lettone e lussemburghese. (per approfondimenti: http://www.consilium.europa.eu/council/what-is-the-presidency?lang=it)
Il "semestre europeo", viceversa, è un ciclo di coordinamento delle politiche economiche e di bilancio nell'ambito dell'Unione ed è una novità, a partire dal 2010, dopo il trattato di Lisbona. Secondo il sito ufficiale del Consiglio UE, durante il semestre europeo gli Stati membri allineano le rispettive politiche economiche e di bilancio con gli obiettivi e le norme convenute a livello dell'UE. In tal modo, il semestre europeo mira a:  1) garantire finanze pubbliche sane; 2) promuovere la crescita economica; 3) prevenire squilibri macroeconomici eccessivi nell'UE. La recente crisi economica ha evidenziato la necessità di una più forte governance economica e di un migliore coordinamento delle politiche tra gli Stati membri. Per tali ragioni, e nel quadro di una più ampia riforma della governance economica dell'UE, gli Stati membri hanno istituito il semestre europeo nel 2010. Il primo ciclo si è svolto nel 2011. In una Unione di economie altamente integrate, un coordinamento rafforzato delle politiche può aiutare a evitare discrepanze e contribuire a garantire convergenza e stabilità in tutta l'UE e nei suoi Stati membri. Gli Stati membri hanno avvertito la necessità di sincronizzare i calendari di queste procedure al fine di razionalizzare il processo e meglio allineare gli obiettivi delle politiche nazionali in materia di bilancio, crescita ed occupazione, tenendo al contempo conto degli obiettivi che si sono dati a livello nazionale e dell'Unione. Inoltre, si è imposta la necessità di estendere la sorveglianza e il coordinamento a politiche macroeconomiche più ampie. A tal riguardo, Il semestre europeo si articola, sostanzialmente, intorno a tre capitoli di coordinamento della politica economica: 1) riforme strutturali, con un accento sulla promozione della crescita e dell'occupazione in linea con la strategia Europa 2020; 2) politiche di bilancio, con l'obiettivo di garantire la sostenibilità delle finanze pubbliche in linea con il patto di stabilità e crescita; 3) prevenzione degli squilibri macroeconomici eccessivi. Per fare ciò è necessario stabilire una tempistica comune delle procedure di coordinamento delle politiche dell'UE: sono sincronizzati i calendari delle relazioni e delle valutazioni in materia di politica economica e di bilancio a livello dell'UE. In sostanzanza, il semestre europeo ha mutato il coordinamento delle politiche economiche nazionali passando da un'ottica ex post ad un'ottica ex ante. Per approfondimenti: http://www.consilium.europa.eu/special-reports/european-semester?lang=it

lunedì 21 luglio 2014

Breve nota sulla tutela del consumatore-turista


In periodo di vacanze e di viaggi può essere utile sapere che il diritto dell'Unione europea (questo fastidioso sconosciuto!) propone, da anni, una serie di atti molto importanti a tutela del consumatore-turista-viaggiatore.  Ma noi non ne sappiamo nulla. Ritardi di voli, di treni o di navi, cancellazione, overbooking, smarrimento di bagagli, per non giungere alla c.d. "vacanza rovinata", sono espressioni tipiche di una disfunzione del sistema dei trasporti e dell'accoglienza che non si verifica soltanto nel periodo di vacanza, ma che nei mesi "caldi" si manifesta con maggiore frequenza; in una parola problematiche del viaggio e del turismo in senso generale. Più propriamente, dal punto di vista giuridico, si deve parlare di inadempimento contrattuale con tutto ciò che ne deriva in materia di danno e suo risarcimento.  Noi non conosciamo i nostri diritti; così che, accettiamo di buon grado, passivamente, ciò che ci propongono a parziale ristoro del danno subito; eppure un ritardo, un negato imbarco (overbooking), o ancora lo smarrimento (momentaneo o definitivo) di un bagaglio, è pur sempre foriero di un danno, piccolo o grande che sia,  che va risarcito. Il diritto UE in materia di tutela del consumatore è la fonte applicabile alle fattispecie testè citate. Non può richiamarsi una norma di diritto italiano in contrasto con la legislazione comunitaria in vigore giacchè la norma UE (provvista di effetto diretto) prevale e deve essere applicata. Come se fosse una legge italiana. Non sto a dare il dettaglio delle normative UE in materia, ma si sappia che in caso di overbooking (aereo o navale) la normativa europea è molto protettiva nei confronti dei consumatori; lo stesso dicasi per i ritardi dei treni superiori ai 60 minuti e più; così come nel caso più grave della c.d. "vacanza rovinata" che presenta, dopo la sentenza della Corte UE nel caso Litner, una nuova fattispecie di danno esitenziale.

venerdì 20 giugno 2014

L'Unione europea dopo le votazioni dei cittadini UE


Terminata la campagna elettorale "europea", com'è noto dominata da slogan del tipo "te la do io l'Europa", vediamo ora gli effetti del voto che in questa occasione appaiono a dir poco diversificati. Ricordando, tuttavia, che nel dibattito generale della campagna elettorale di Unione europea si è parlato poco o niente trasferendo, come sempre, la competizione su questioni puramente interne. E mi riferisco non solo ai partiti "no euro o no europa" bensì alla maggior parte delle compagini politiche. E' un atteggiamento deprecabile che evidenzia la gestione "domestica" degli affari con una visione provinciale della politica italiana. A seguito di queste elezioni, tuttavia, il risultato delle urne "europee" del 2014 rappresenta un fatto nuovo, più democratico, che va al di la della scelta dei 751 europarlamentari; per la prima volta della storia comunitaria, infatti, i cittadini europei hanno espresso un voto che non soltanto gura una loro rappresentanza (o maggioranza) in seno al Parlamento europeo (PE) (che li rappresenta nella "triade" legislativa del sistema istituzionale UE), ma anche, e (forse) soprattutto, indirettamente, va ad  incidere sulla successiva nomina del Presidente della Commissione europea. Organo che, lo ricordo, rappresenta l'interesse europeo comune. Di conseguenza, i cittadini UE hanno avuto la possibilità di incidere su due istituzioni fondamentali della "triade" legislativa, considerando che il Consiglio UE (meglio noto come "dei ministri") riunisce i ministri dei governi nazionali per materia trattata (ecofin, affari generali, agricoltura, ambiente, commercio ecc.). Al di fuori del "triangolo legislativo" il Consiglio europeo, organo sostanzialmente politico, che riunisce de facto i Capi di Stato e di governo dei 28 Stati membri che nella procedura di nomina del Presidente della Commissione gode di un ruolo importante. . Pertanto, i cittadini UE sono considerati come parte integrante del sistema; e questa è una conquista democratica raggiunta negli anni a seguito di estenuanti trattative e grazie, soprattutto, alla giurisprudenza della Corte di giustizia UE. Ma nessuno lo sa. Ripeto: nessuno ne è a conoscenza. Così che, allo slogan "te la do io l'Europa" si dovrebbe considerare la determinazione collettiva di chi ha votato ed espresso una preferenza: questa è ordinaria democrazia ("l'Europa che vogliono i cittadini"). Per di più in un sistema complesso come è l'UE che racchiude Stati (e che Stati!), istituzioni e cittadini. La questione è, allora, da un lato, il rispetto della volontà politica dei cittadini con tutte le conseguenze che ne derivano e, dall'altro, il rispetto delle norme giuridiche, in particolare delle norme costituzionali europee (i Trattati). E' prevedibile un conflitto tra istituzioni UE: in particolare tra PE e Consiglio europeo, giacchè quest'ultimo non sembra accettare di buon grado la nuova previsione dei Trattati prevista dalla riforma di Lisbona nel 2007. La base giuridica della questione è l'art. 17, parag. 7 TUE che stabilisce che il Consiglio europeo nella nomina del Presidente della Commissione europea, dopo consultazioni appropriate, deve "tener conto" dei risultati delle elezioni del PE. In passato, la designazione era appannaggio esclusivo del Consiglio europeo con una successiva "ratifica" da parte del PE (una sorta di assenso democratico). Dopo Lisbona, nell'ottica di un sistema più democratico e vicino ai cittadini, la procedura di nomina si sbilancia verso il PE e, le conseguenti decisioni dei Capi di Stato e di governo, appaiono come un momento di fusione del profilo democratico ed il profilo intergovernativo. Ciò perchè il PE e la Commissione europea sono collegati da un rapporto di fiducia (voto di approvazione) che in qualsiasi momento si può rompere (mozione di censura) con la conseguenza delle dimissioni dei membri della Commissione (giacchè organo collegiale). Il Consiglio europeo non può tralasciare questa relazione istituzionale fondamentale e democratica per gli equilibri istituzionali complessivi. Comprendo che sono in gioco anche altre decisioni importanti da prendere entro l'anno (presidente del Consiglio europeo, Alto Rappresentante per la politica estera, eurogruppo ecc.) ma la relazione PE-Commissione è l'essenza stessa della democrazia nel sistema istituzionale dell'Unione europea. Aspetto, questo, che viene richiamato enfaticamente nel Preambolo del Trattato sull'Unione europea lì dove si invitano gli Stati membri a "rafforzare ulteriormente il funzionamento democratico ed efficiente delle istituzioni in modo da consentire loro di adempiere in modo più efficace, in un contesto istituzionale unico, i compiti loro affidati".

domenica 1 giugno 2014

Risposta a D.M. che scrive su Il Sole 24 Ore una lettera su "Il reale peso dell'Europarlamento"


Leggo la lettera pubblicata oggi 29 maggio 2014 (sul numero 145 a pag. 22) dal titolo "Il reale peso dell'Europarlamento" a firma D.M., che mi da l'opportunità di spiegare meglio e di chiarire a beneficio della collettività. Da studioso della materia senza alcun motivo di polemica. Anzi, lo ringrazio per la sollecitazione. Non dobbiamo dimenticare che l'Unione europea non è uno Stato (ancorché taluni la ritengano un "Super-Stato" o qualcosa del genere) e, quindi, dal punto di vista strettamente giuridico non è possibile fare riferimenti statali. Non sono corretti né adeguati. L'accostamento è improponibile. Il sistema istituzionale UE è un sistema complesso (28 ordinamenti giuridici da cooordinare), diverso, dalle due anime: una propriamente "comunitaria", direi istituzionale, l'altra intergovernativa. Il potere legislativo è appannaggio di tre istituzioni comunitarie: la Commissione europea che gode di un diritto molto esteso di iniziativa legislativa e dà l'avvio all'iter legislativo nell'interesse comune; ed è l'organo sostanzialmente esecutivo e di controllo UE; poi abbiamo il Parlamento europeo (PE) (organo che rappresenta i Popoli europei) ed il Consiglio dell'Unione (che rappresenta i governi degli Stati membri; da non confondere con il Consiglio europeo che è un organo politico che riunisce i Capi di Stato e di governo dei 28 Stati). Dalla dialettica istituzionale di PE e Consiglio, e dai differenti obiettivi delle istituzioni, scaturisce la legislazione UE che generalmente conosciamo come il diritto dell'Unione europea. Quelle "leggi" europee che, in modo diretto ovvero in modo mediato, stabiliscono diritti e doveri non solo per lo Stato ma anche per le persone (fisiche e giuridiche). Il Parlamento europeo, oggi, a seguito dell'ultima riforma del Trattato di Lisbona entrata in vigore il 2010, gode di un potere legislativo riconducibile a quello del Consiglio UE, e quindi, laddove non riscontri un interesse generale e soprattutto dei cittadini che rappresenta, può bloccare l'iter legislativo fino al punto di porre il veto nei confronti del Consiglio. E' una importante conquista raggiunta negli anni. Ricordo, infatti, che con la novellata procedura legislativa ordinaria, che è la procedura più importante ed utilizzata per l'esercizio delle politiche comuni, il PE (oltre alle altre prerogative altrettanto importanti che non sto in questa sede ad esporre) rappresenta l'unica "voce" dei cittadini europei. Ecco perché è importante essere ben rappresentati all'interno del sistema legislativo UE. Quanto al costo degli Europarlamentari, com'è comprensibile, si tratta di scelte politiche. Ricordo soltanto, per maggiore chiarezza, che il bilancio UE a differenza di altre organizzazioni internazionali, si fonda su risorse proprie (art. 311 TFUE): si tratta di entrate prelevate nel quadro delle politiche comunitarie e non già provenienti dagli Stati membri e calcolate come contributi nazionali. Le risorse proprie sono costituite da dazi doganali, diritti agricoli, contributi zucchero, aliquota prelevata sulla base imponibile armonizzata dell'imposta sul valore aggiunto (IVA) e aliquota prelevata sul reddito nazionale lordo (RNL).

martedì 29 aprile 2014

Lettera a "Il Sole 24Ore" pubblicata oggi 29 aprile 2014 pag. 20

Oggi 29 aprile 2014 sul quotidiano "Il Sole 24 Ore" a pag. 20 una mia precisazione; che pubblico sul mio profilo anche agli amici di FB.

"Leggo la lettera firmata N.B. pubblicata oggi 28 aprile 2014 sul numero 116 a pag. 14 dal titolo "Gli europarlamentari sono poco attenti alle tematiche green". Mi sembra doveroso fare alcune precisazioni, per correttezza e per chiarezza nei confronti degli elettori che tra qualche giorno saranno chiamati a votare il nuovo Parlamento europeo. Sono d'accordo con il lettore N.B. sulla questione dell'assenteismo dei nostri parlamentari: per risolvere questa piaga italiana (ma non solo italiana!) occorre non solo andare a votare ma anche votare persone di un certo spessore; ovviamente al di la del colore politico e delle idee personali di ciascuno. Non sono d'accordo, invece, sulle "colpe" che i parlamentari europei avrebbero sull'annosa questione delle tre sedi del Parlamento europeo. Preciso che il Parlamento europeo nulla può sulla scelta delle sedi delle istituzioni europee, incluse il Parlamento, giacché la competenza a legiferare in questa (delicata) materia è dei governi dei 28 Stati membri (art. 341 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea). Inoltre, il Protocollo n. 6 allegato al Trattato stabilisce nel dettaglio la generale e generica norma contenuta nell'art. 341 sancendo, tra l'altro, anche per la Commissione europea e per il Consiglio dell'Unione, che hanno la sede principale a Bruxelles, l'onere di tenere servizi e sessioni a Lussemburgo. E' una scelta politica come si può ben comprendere che risale al 1965 e che è stata negli anni sempre confermata. Quanto alle "tematiche green" ricordo soltanto che se abbiamo in Italia una politica ambientale lo dobbiamo proprio (ed esclusivamente) al Parlamento europeo e all'intero diritto UE (Titolo XX "Ambiente", artt. 191-193; peraltro materia disciplinata anche dall'art. 37 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, in quanto diritto fondamentale della persona".
Massimo Fragola

giovedì 24 aprile 2014

L’Europa presagita da Croce - Ciclo di 5 seminari


La Compagnia della Disciplina della Croce e l’Antenna del Circolo di Studi Diplomatici

hanno il piacere di invitare la S.V., nel contesto del Maggio dei Monumenti, al primo dei 5 Sabati del ciclo

"L’Europa presagita da Croce"

Sabato 3 maggio 2014 ore 11,00

Conversazione di Massimo Fragola:
 “Da Altiero Spinelli ad oggi quale Europa?”

Presenzierà Gerardo Marotta al quale sono dedicati i 5 incontri



Chiesa della Santa Croce
con ingresso da Via C. Sersale, 9 - Napoli

lunedì 17 marzo 2014

Lacci e lacciuoli europei

Qualche giorno fa Alessandro Leipold su Il Sole 24 Ore analizzava le cause della nostra crisi. Una vecchia storia. Negli ultimi 30 anni (circa) l'Italia è stata sempre in crisi: più o meno grave. Molto attentamente, Leipold rilevava che già nel 1970 Giudo Carli parlava di "lacci e lacciuoli" che ingabbiavano come una morsa la nostra economia. La frase "lacci e lacciuoli" non era però di Carli bensì fu coniata qualche anno addietro da Luigi Enaudi; entrambi però si riferivano ai numerosi vincoli che soffocavono la nostra economia e ne riducevano il potenziale. Vincoli ed ostacoli del tutto domestici che, come ha affermato Leipold, sono "zavorre accuratamente made in Italy". Ad esempio il costo della pubblica amministrazione e l'inefficienza della stessa; l'intreccio di caste corporative; la regolamentazione bizantina del mercato del lavoro; il fardello del debito pubblico. Per fare solo alcuni esempi. Ma noi guardiamo sempre altrove, mai in noi stessi. Mai un'autocritica dalla quale partire per rinnovare. Veramente e concretamente. Le cause della crisi (ennesima!) sono sempre al di fuori dei nostri confini. I vincoli europei…i compiti a casa. L'Unione europea è il capro espiatorio, da "demonizzare", da condannare tout court senza appello. Soprattutto senza sapere. Questo atteggiamento, molto in voga negli ultimi anni, è stato alimentato non soltanto dagli euroscettici (che per carità hanno tutto il diritto di farlo), ma anche da persone (mi riferisco in particular modo a politici) che euroscettiche non sono. Quante volte abbiamo sentito la frase: "ce lo impone l'UE" oppure "è un obbligo comunitario" talvolta impropriamente affermato. Certo l'UE costituisce una grande valvola di sfogo soprattutto per i governi nazionali; quail che siano. E specialmente i nostri governi degli ultimi anni. E' chiaro che l'ordinamento giuridico UE determina delle regole che si applicano nel territorio UE, precisamente, 28 Stati e più di 500 milioni di persone. Regole che devono essere rispettate da tutti pena una disparità di trattamento e la violazione del principio costituzionale di non discriminazione. A ciò vigila sul piano politico la Commissione sul piano giurisdizionale la Corte di giustizia. Se ciò non avviene si verifica la "rottura del patto" e la violazione della leale collaborazione, altro principio costituzionale. Ciò detto, è altresì chiaro che la governance dell'UE può e deve essere migliorata; soprattutto la gestione della moneta comune (che lo ricordo gode nei Trattati, ed al di fuori di questi, di una disciplina particolare), che gli addetti ai lavori ben criticano già dalla sua nascita nel 1992 Trattato di Maastricht. L'ordinamento UE non è perfetto ed è quindi perfettibile. Lo comprendo una legislazione sconosciuta che promana da un sistema sconosciuto non comprensibile. Ma accettabile e influenzabile nelle sedi opportune; prima che le "leggi europee" siano adottate. Il parlamento europeo è l'unica istituzione chef a i nostri interessi, al di là dei governi e degli Stati. E la prossima votazione europea è l'occasione buona per invire parlamentri seri e preparati. Al di la del colore politico di ciascuno. Stare insieme agli altri cittadini europei, agli altri Stati membri, nell'esercizio delle competenze condivise è una necessità ineludibile. Quindi, anche un'occasione per darci definitivamente una regolata al nostro modo di essere e rispettare (anche) gli impegni europei. Come d'altronde fanno gli altri 27 Stati.

martedì 11 febbraio 2014

La Corte Costituzionale tedesca e i cittadini dell'Unione europea


La Corte Costituzionale tedesca (Bundesverfassungsgericht), ha deciso di rinviare alla Corte di giustizia dell'Unione europea (in prosieguo anche Corte UE) un ricorso contro il programma della BCE di acquisti illimitati di bond noto come OMT (Outright Monetary Transactions). E' un fatto importante che va segnalato.  Infatti, la suprema Corte tedesca si rivolge, per la prima volta in cinquant’anni, alla Corte UE di Lussemburgo, attivando così la procedura pregiudiziale contenuta nell'art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE). La decisione resa nota il 7 febbraio 2014, si inserisce nel più ampio dibattito pendente dinanzi alla Corte costituzionale tedesca riguardo la costituzionalità della partecipazione tedesca allo European Stability Mechanism (ESM),  il fondo europeo di salvataggio finanziario. Su questa questione il Bundesverfassungsgericht emetterà una sentenza il 18 marzo dopo che la Corte UE si sarà pronunciata. I due temi sono collegati in quanto, per poter ricevere gli aiuti dal programma OMT, uno Stato deve necessariamente sottoscrivere un programma di finanziamento dai fondi europei di salvataggio (ESM), rispettandone la condizionalità. Secondo molti cittadini tedeschi il programma OMT violerebbe l'articolo 123 TFUE e per questo motivo la Corte costituzionale tedesca ha rinvito la questione alla Corte UE attendendo il suo responso. E' importante ricordare che l'art. 267 TFUE disciplina efficacemente la cooperazione tra i giudici nazionali degli Stati membri (quali che siano) e la Corte di giustizia UE; costituendo, così, in materia di diritto dell'Unione europea, un mega-ordinamento giudiziario europeo coordinato ed integrato. Siffatta procedura trasforma il ruolo dei giudici nazionali in giudici europei "decentrati", ovvero giudici "naturali" del diritto UE. L'aver rinviato, per la prima volta, gli atti della causa alla Corte di giustizia è un fatto importante, laddove si consideri che le Corti costituzionali (non tutte per la verità) non sempre e con favore hanno attivato la procedura di cooperazione, non ritenendo di esserne né obbligate né coinvolte funzionalmente. Anche la Corte costituzionale italiana è stata riluttante a rinviare gli atti alla Corte UE fino al leading case della nota ordinanza n. 103/2008 a cui ha fatto seguito la più recente e significativa ordinanza di rinvio n. 207/2013 che attende la pronuncia della Corte di giustizia. In sostanza, dopo un lungo periodo di silenzio, le Corti costituzionali (sopra citate) hanno compreso che la procedura del rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE non rappresenta una diminutio  delle loro funzioni costituzionali, bensì un arricchimento delle loro prerogative e una "valvola di sfogo" significativa in una materia, tanto complessa come il diritto UE, non sempre di facile assimilazione (accettazione?) anche ai giudici costituzionali. Sicché, messe da parte le presunzioni di "onnipotenza" e vetusti retaggi nazionalistici (leggi sovranità) anche i giudici di Karlshrue che, lo ricordo, rappresentano un punto di riferimento certo del diritto in Europa, hanno ben compreso che cooperare non vuol dire sottomettersi a nessuno e men che meno alla Corte di giustizia UE. Il segnale va letto anche in altra prospettiva. Ci si rende conto che (dal 1951) siamo parte di un ordinamento sovranazionale costituito per disciplinare insieme talune materie che gli stessi Stati hanno trasferito, volontariamente, dalla loro competenza esclusiva (sovranità) alle istituzioni dell'Unione europea? E che tra queste istituzioni l'unica che ci rappresenta è il Parlamento europeo? Le Corti costituzionali lo hanno compreso (anche in ritardo…); e i cittadini?

mercoledì 5 febbraio 2014

Sulle prossime elezioni del Parlamento europeo


Le elezioni del Parlamento europeo (PE) del maggio prossimo, sono le più importanti (e complicate) degli ultimi 50 anni. Per vari motivi. Cercherò di spiegarne i più salienti (almeno dal mio punto di vista). Ricordando, preliminarmente, che i circa 530 milioni di cittadini UE hanno solo lo strumento del voto europeo, ogni 5 anni, per poter partecipare (ed influenzare) in via mediata al processo di formazione degli atti legislativi dell'Unione europea.  "Leggi europee" che non riguardano esclusivamente gli Stati membri (sarebbe un diritto internazionale) bensì, la maggior parte di esse,  incide immediatamente sulla vita e sui comportamenti di noi cittadini (diritto sovranazionale). Ovviamente nelle materie nelle quali l'UE può legiferare; vale a dire, in quei settori che gli Stati membri hanno devoluto alla competenza dell'Unione. Ricordo, infatti, che l'UE non può legiferare in qualsiasi settore della nostra vita dovendosi attenere alle cc.dd. "competenze di attribuzione", cioè, laddove c'è stata cessione di sovranità, volontaria ed irrevocabile (almeno in linea di principio). Non è questo lo scopo di queste riflessioni spiegare perché gli Stati hanno ceduto la loro sovranità in talune materie giacché il discorso ci porterebbe molto addietro negli anni; addirittura nel momento iniziale dell'integrazione europea con la nascita della prima Comunità del carbone e dell'acciaio (CECA) del 1951. Dal che, vale la pena solo richiamare l'attenzione sul fatto che la citata "cessione di sovranità" non è "assoluta", nel senso che gli Stati si sono spogliati completamente della gestione di siffatte materie; bensì trattasi di una gestione "condivisa" delle stesse da attuare dalle istituzioni UE a tal uopo previste, in particolare, mi riferisco, al Parlamento europeo, al Consiglio dell'Unione europea (anche detto Consiglio UE o, se si vuole, "dei ministri") ed al Consiglio europeo, alla Commissione europea. Ciascuna istituzione ha degli obbiettivi ben precisi e rappresenta una determinata categoria di soggetti. Il PE rappresenta noi cittadini, il Consiglio europeo i Capi di Stato o di governo; il Consiglio UE i rappresentanti dei governi nazionali; la Commissione gli interessi europei, gli interessi comuni. Per far sì che il sistema istituzionale funzioni a regola, e a garanzia degli interessi in gioco, è necessario che ognuno faccia la sua parte e ciascuna istituzione rispetti il mandato che loro assegna il Trattato. In primis il Parlamento europeo. Per di più, dopo la riforma del Trattato di Lisbona del 2010, con i nuovi Trattati sull'Unione europea (TUE) e sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), il Parlamento europeo diventa legislatore a pieno titolo insieme al Consiglio UE nelle materie nelle quali è prevista la procedura legislativa ordinaria (art. 294 TFUE), oggi applicabile alla gran parte delle materie di competenza UE. E' necessario, pertanto, un Parlamento qualificato che si ponga in contrapposizione con gli interessi governativi, pena l'irrilevanza del ruolo del PE e, di conseguenza, il rispetto della democrazia rappresentativa che informa l'intero funzionamento del sistema UE (art. 10, parag. 1 TUE). E' l'unico modo per far sentire, ancorché in via mediata, la nostra voce ("I cittadini sono direttamente rappresentati, a livello dell'Unione, nel Parlamento europeo", art. 10, parag. 2 TUE). Tutto ciò si realizza, come detto, oltre al ruolo istituzionale di co-legislatore approvando, modificando o respingendo le proposte legislative presentate dalla Commissione, con la ulteriore funzione di controllo sull'operato della stessa Commissione (controllo politico grazie alla concessione o revoca della fiducia all'esecutivo UE), nonché in ordine all'adozione del bilancio dell'Unione europea (aspetto questo delicatissimo come si può immaginare). Un'ulteriore novità della recente riforma di Lisbona consiste nel  dovere del PE di collaborare con i parlamenti nazionali degli Stati membri, al fine assicurare di una maggiore partecipazione dei parlamenti nazionali alle attività dell'Unione europea e di potenziarne la capacità di esprimere i loro pareri su progetti di atti legislativi dell'Unione europea e su altri problemi che rivestano per loro un particolare interesse (Protocollo n. 1 allegato ai Trattati). In ultimo, per concludere, sarà il prossimo Parlamento eletto ("tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo", art. 17, parag. 7 TUE) che avrà la competenza ad eleggere, per la prima volta, il candidato proposto dal Consiglio europeo alla carica di presidente della Commissione europea. Con possibilità di bocciare la candidatura presentata ed esprimere un diritto di veto sulla persona. Quindi un ruolo fondamentale del PE, come espressione dei popoli europei, nell'indicazione del Presidente della Commissione per i prossimi 5 anni. Occorre meditare su tutto ciò.

giovedì 23 gennaio 2014

Ancora sul caso dei Marò (parte IV): diritti umani ed esecuzione delle misure restrittive della libertà



L'annosa questione dei nostri Marò detenuti in India ed in attesa di un chiaro capo d'imputazione dal punto di vista giuridico, rasenta oramai una squallida farsa se non fosse per la gravità dei fatti alla base della controversia. Rinvio ai precedenti post per la spiegazione dei fatti. Una disputa politico-diplomatica che non ha riscontro nella nostra storia della Repubblica. Sicuramente tutti ricordiamo altre discutibili vicende (soprattutto con gli USA) accadute negli anni addietro, ma mai come in questo caso si è trattato di uno snervante lungo negoziato politico-diplomatico che ancora non riesce a vedere la conclusione. Snervante soprattutto per i nostri Marò e per i loro familiari. Allo stato attuale, e dopo circa due anni (!) dai tragici eventi (nei quali, va detto per onestà intellettuale, furono uccisi due pescatori indiani e che è necessario fare giustizia) non è stato ancora formulato il capo d'imputazione per i nostri militari. E' un comportamento sconcertante in violazione delle regole internazionali ed in violazione dei diritti fondamentali della persona, diritti generalmente ed universalmente riconosciuti all'individuo, in qualsiasi momento della sua vita. Anche durante lo stato detentivo. Anche durante misure cautelari in attesa di una sentenza. Basti pensare, per fare un solo esempio, ai divieti di tortura e di trattamenti inumani e degradanti del detenuto riconosciuti da tutte le "nazioni civili" e codificati in varie convenzioni internazionali, in norme costituzionali e "carte dei diritti". Anche dall'India. Ciò appare sorprendente laddove si consideri, con tutte le cautele del caso, che l'India è da considerare come la più grande "democrazia" al mondo (quante accezioni di democrazia?), con più di un miliardo di cittadini, ancorchè l'esercizio di tali diritti risente delle grandi dimensioni del paese, dei diritti delle varie popolazioni molto frammentati e diversificati da regioni a regioni, nonché dalla variegata diversità etnica e religiosa presente sul territorio. A tal riguardo, più volte Human Rights Watch, che lo ricordo è un'organizzazione internazionale non governativa che si occupa della difesa dei diritti umani, nonchè il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione del rispetto e difesa dei diritti umani (2011), hanno espresso preoccupazioni per il rispetto in India di tali diritti e libertà fondamentali, posto che sono stati riscontrati numerosi casi di torture, maltrattamenti, scomparse, minacce, arresti e detenzioni arbitrarie, false accuse e quant'altro. Non è questo a quanto consta il caso dei Marò. Tuttavia, nei trattamenti disumani e degradanti vanno annoverate non soltanto le pene corporali e materiali, ma anche le costrizioni psicologiche, immateriali, il senso di incertezza reiterata, la minaccia di una conclusione tragica degli eventi con la pena di morte, che i nostri marò stanno subendo da circa due anni. In questo intricato contesto vale la pena analizzare l'accordo internazionale bilaterale tra Italia ed India firmato il 10 agosto 2012, cioè nel bel mezzo della contesa, ed entrato in vigore il 4 novembre 2012. L'accordo ratificato in Italia con la legge 26 ottobre 2012, n. 183 è rubricato "(Accordo) sul trasferimento delle persone condannate" ed è stato adottato dai due governi cira sette mesi dall'inizio della controversia internazionale. Il che avrebbe dovuto stemperare le tensioni laddove lo strumento giuridico si pone l'obiettivo precipuo, come recita il preambolo dell'accordo, di "sviluppare la cooperazione per il trasferimento delle persone condannate al fine di facilitarne la riabilitazione sociale". Sorprendente! Vediamo il contenuto dell'accordo e i suoi limiti nelle parti essenziali. Nell'art. 1, rubricato "Definizioni" spiccano il contenuto delle lettere a), b) e d). Sub a) "condanna" è qualsiasi pena o misura privativa della libertà personale inflitta da un giudice a seguito della commissione di un reato per un determinato periodo di tempo o per tutta la vita; sub b) "sentenza" è una decisione del giudice con la quale venga inflitta una condanna; sub d) "persona condannata" è la persona che sconta una pena detentiva in seguito ad una sentenza pronunciata del giudice. Le norme sono chiare ma a tal riguardo non appare conforme l'atteggiamento del governo indiano posto che siamo ancora in attesa (non dico) della sentenza (definitiva) bensì del mero capo d'imputazione. Mi pare che i termini equi e ragionevoli del processo si applichino anche in India. Dall'interpretazione funzionale dell'accordo bilaterale emergono alcune ipotesi percorribili. Durante questa fase lunghissima, in attesa del capo d'imputazione e della conseguente sentenza, i due marò sarebbero potuti essere rimpatriati (in attesa di giudizio) posto che, ai sensi dell'accordo, non è necessario una sentenza formale bensì qualsiasi "misura privativa della libertà personale inflitta da un giudice a seguito della commissione di un reato" [sub a) e sub b)]. Secondo l'art. 2 "una persona condannata nel territorio di uno Stato Contraente può essere trasferita nel territorio dell'altro al fine di scontare la pena che gli è stata inflitta"; e ciò vale sia per una sentenza di condanna (che ancora non c'è), sia per qualsiasi "misura privativa della liberta' personale inflitta da un giudice a seguito della commissione di un reato" in quanto "persona condannata" [sub. d)], che richiama la nozione di "condanna" sub a). È la persona, tuttavia, che deve "manifestare allo Stato trasferente o a quello ricevente la propria volontà di essere trasferito" [art. 2, parag. 1] ed è altresì necessario che gli Stati contraenti siano d'accordo sul trasferimento  [art. 4, parag. g)]. Ai sensi dell'art. 2, parag. 4), l'accordo non è tuttavia applicabile se la persona è stata condannata per un reato previsto dalla legge militare. La norma non specifica a quale ordinamento giuridico deve appartenere la "legge militare": se a quello di provenienza della persona che ha commesso il reato, ovvero alla legge territoriale nel quale il reato è stato consumato. In ogni caso mi sembra acclarato che il fatto è avvenuto in acque internazionali, pertanto la norma in questione non rileverebbe dal punto strettamente giuridico. Ma la realtà, come si sa, ha preso un'altra prospettiva. Altre limitazioni all'esecuzione dell'accordo sono rilevabili nell'art. 4 ("Condizioni per il trasferimento"), in particolare nella lett. b) laddove si specifica che l'accordo si applica soltanto se "la sentenza è definitiva"; con ciò ponendosi in contrasto con la su citata norma che sancisce che non è necessario una sentenza bensì qualsiasi "misura privativa della libertà personale inflitta da un giudice a seguito della commissione di un reato" [sub a) e sub b)]. Qualora l'interpretazione funzionale non sia gradita occorrerà attendere una sentenza del giudice indiano. Fermo restando il principio che vede la possibilità di scontare la pena in Italia. In effetti, il trasferimento della persona intenderebbe, da un lato, smussare le tensioni politico-diplomatiche tra i due Stati e garantire in egual misura allo Stato trasferente l'impegno dello Stato ricevente a provvedere al restante della pena; dall'altro, favorire il reinserimento sociale del "condannato" nel suo ambiente di origine che, come sottolineato, è un obiettivo fondamentale che informa l'intero accordo. A tal riguardo "le autorità dello Stato ricevente devono continuare l'esecuzione della condanna rispettando la natura e la durata della pena inflitta dalla sentenza dello Stato trasferente", ancorché "l'esecuzione della sentenza sarà disciplinata dalla legge dello Stato ricevente e soltanto tale Stato sarà competente per l'adozione di tutte le relative decisioni" (art. 9). Si sottolinea che l'accordo è applicabile all'esecuzione di condanne inflitte prima e dopo la sua entrata in vigore (art. 17) e pertanto applicabile in ogni caso alla fattispecie in esame. Che aggiungere? Si attende il capo d'imputazione e la relativa sentenza considerando che gli strumenti per l'esecuzione della stessa, nel rispetto dei canoni di umanità e pacificazione, possono essere utilizzati nel miglior modo possibile in favore dei due Marò che già hanno subito non poche vessazioni.