lunedì 8 luglio 2013

La Corte di giustizia dell'Unione europea condanna l'Italia per cattiva trasposizione della direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento dei disabili in materia di impiego


La Corte di giustizia dell'Unione europea condanna l'Italia per cattiva trasposizione della direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento dei disabili in materia di impiego.

La dignità del nostro Paese è ai limiti della decenza.  La recente sentenza di condanna della Corte di giustizia dell'Unione europea (UE) nei confronti dell'Italia è la naturale conseguenza di un prolungato inadempimento alle regole europee. Propprio in materia di diritti umani e libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità nel rispetto della loro intrinseca dignità. Purtroppo, non è una novità per il nostro Paese. Si tratta di una decisione che giunge a sentenza di condanna a seguito di una procedura d'infrazione che la Commissione europea ha attivato ai sensi dell’articolo 258 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE). Dopo la fase "precontenziosa", cioè istruttoria (direi amministrativa), la Commissione europea, acclarato l'inadempimento e la impossibilità per lo Stato italiano di porvi rimedio in tempi brevi, è passata alla fase "contenziosa" dinanzi alla Corte di giustizia. Con il suo ricorso la Commissione chiede alla Corte di dichiarare che la Repubblica italiana, non imponendo a tutti i datori di lavoro di prevedere soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili, è venuta meno al suo obbligo di recepire correttamente e completamente l’articolo 5 della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GUUE L 303, pag. 16). Ricordo che in materia, l'Unione europea ha recepito altresì la convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, approvata con decisione 2010/48/CE del Consiglio, del 26 novembre 2009 (GUUE 2010, L 23, pag. 35; in prosieguo: la «convenzione dell’ONU»). Scopo della Convenzione è «promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità». [Per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri]. La direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di impiego si fonda sulla considerazione che la discriminazione basata su una disabilità può pregiudicare il conseguimento degli obiettivi del Trattato, in particolare il raggiungimento di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento della qualità della vita, la coesione economica e sociale, la solidarietà e la libera circolazione delle persone. Tale direttiva stabilisce pertanto un quadro generale per la lotta a discriminazioni di questo tipo riguardo all’occupazione e alle condizioni di lavoro, al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento. Per garantire ai disabili la parità di trattamento, la direttiva impone in particolare al datore di lavoro di adottare i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire a tali persone di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti comportino un onere finanziario sproporzionato. Tale onere non è sproporzionato quando è compensato in modo sufficiente da misure statali a favore dei disabili. Il diritto italiano include vari provvedimenti legislativi in materia di assistenza, integrazione sociale e diritti delle persone disabili, nonché di diritto al lavoro. Ad esempio, la legge n. 104/1992 - Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate; la legge n. 381/1991 - Disciplina delle cooperative sociali; la legge n. 68/1999 - Norme per il diritto al lavoro dei disabili. Anche il decreto legislativo n. 216/2003 per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. La Commissione ha sostenuto dinanzi alla Corte UE che le garanzie e le agevolazioni previste a favore dei disabili in materia di occupazione dalla normativa italiana di trasposizione della direttiva (decreto legislativo n. 216/2003) non riguardano tutti i disabili, tutti i datori di lavoro e tutti i diversi aspetti del rapporto di lavoro. Peraltro, l’attuazione dei provvedimenti legislativi italiani sarebbe affidata all’adozione di misure ulteriori da parte delle autorità locali o alla conclusione di apposite convenzioni tra queste e i datori di lavoro e pertanto non conferirebbe ai disabili diritti azionabili direttamente in giudizio. Insomma, un rinviare ad altri la corretta trasposizione della direttiva. A nulla sono valse le contestazioni dei legali dell'Italia in sede di dibattimento. Infatti, la Corte dichiara che, se è vero che la nozione di «handicap» non è espressamente definita nella direttiva, essa deve essere intesa alla luce della convenzione dell’ONU, nel senso che si riferisce ad una limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, le quali, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. Pertanto, gli Stati membri devono stabilire un obbligo per i datori di lavoro di adottare provvedimenti efficaci e pratici (sistemando i locali, adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro o la ripartizione dei compiti) in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere a un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione, senza tuttavia imporre al datore di lavoro un onere sproporzionato. La Corte ha sottolineato che siffatto obbligo riguarda tutti i datori di lavoro. Non è sufficiente che gli Stati membri prevedano misure di incentivo e di sostegno, ma è loro compito imporre a tutti i datori di lavoro l’obbligo di adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete. Sicché, le varie misure adottate dall’Italia per l’inserimento professionale dei disabili non impongono a tutti i datori di lavoro l’adozione di provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi aspetti delle condizioni di lavoro e consentano loro di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione. Di conseguenza, l’Italia è venuta meno ai propri obblighi. Emerge da quanto precede che la legislazione italiana, anche se valutata nel suo complesso, non impone all’insieme dei datori di lavoro l’obbligo di adottare, ove ve ne sia necessità, provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi aspetti dell’occupazione e delle condizioni di lavoro, al fine di consentire a tali persone di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione. Pertanto, essa non assicura una trasposizione corretta e completa dell’articolo 5 della direttiva 2000/78. Di conseguenza, la Corte dichiara che la Repubblica italiana, non avendo imposto a tutti i datori di lavoro di prevedere, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili, è venuta meno al suo obbligo di recepire correttamente e completamente l’articolo 5 della direttiva 2000/78.
Cfr. la sentenza Corte di giustizia UE 4 luglio 2013 nella causa C-312/11 Commissione / Italia in www.curia.europa.eu/giurisprudenza


martedì 2 luglio 2013

L'intricata questione dei Marò: atto finale?



L’intricata  questione dal punto di vista giuridico-politica è nota a tutti, quanto meno nei tratti giornalistici e per quei pochi documenti accessibili; una questione incredibilmente gestita male dal governo italiano. Al di là delle recenti ricostruzioni dei fatti. Rimando ai miei precedenti post nel mio blog massimofragola.blogspot.it. Tuttavia, non può negarsi che l’India ha esorbitato dalle sue competenze in modo chiaro ed inequivocabile. Avocando a sé il diritto di giudicare i due militari italiani ha disatteso le convenzioni ed il diritto internazionale consuetudinario con un approccio sicuramente non diplomatico ma arrogante dal punto di vista giuridico-politico. Credo che il governo italiano, una volta costatata l’impossibilità di risolvere la questione in tempi brevi e in via diplomatica, avrebbe dovuto immediatamente richiedere un arbitrato internazionale, in modo unilaterale, che avrebbe potuto chiarire i fatti in modo terzo e indipendente. Troppi giorni in attesa di sviluppi diplomatici, troppe valutazioni errate. Perché non chiedere una rogatoria internazionale immediatamente? Le tardive richieste di rogatoria per consentire di svolgere i procedimenti penali in Italia rimangono tuttora prive di riscontro. La richiesta alle Autorità  indiane di avviare consultazioni ex art. 100 e art. 283 della Convenzione sul Diritto del Mare (UNCLOS) non ha ricevuto riscontro ed ha allungato i tempi. Errori anche da parte Indiana. Come la decisione della Corte Suprema di precludere al nostro Ambasciatore Mancini di lasciare il Paese senza il permesso della stessa Corte. Una palese violazione delle immunità/inviolabilità diplomatiche. Questo atteggiamento costituisce una sproporzionata violazione della Convenzione di Vienna del 1961 sulle relazioni diplomatiche che codifica principi universalmente riconosciuti. L’intera comunità internazionale continua a far valere anche questo principio, fondamentale per le relazioni tra gli Stati, e principio-cardine di diritto consuetudinario e pattizio costantemente ribadito dalla Corte Internazionale di Giustizia (ONU). Nel frattempo nell’opinione pubblica indiana saliva l’astio e il desiderio di vendetta. Dal punto di vista italiano non può sottacersi una verità, tra le tante, “economica”, dei fatti: evitare che l’Italia fosse andata in rotta di collisione con l’India laddove l’ipotesi più rosea sarebbe stata di mettere in discussione circa 8 miliardi di commesse. Questo è un dato. Per il resto occorre verificare la veridicità della ricostruzione apparsa sui media qualche giorno fa. Qui di seguito una ricostruzione. Dal punto di vista giuridico di diritto internazionale nulla cambia. Dal punto di vista etico, della morale, nei confronti dell’essere umano c’è da aggiungere molto altro. Ma attendiamo.

Fausto Biloslavo - Lun, 01/07/2013 - www.faustobiloslavo.eu
E se i marò non avessero mai sparato sul peschereccio St. Anthony, dove la morte di due pescatori indiani ha fatto esplodere una crisi senza precedenti fra Italia e India? Se fossero totalmente innocenti? Lo sostiene Toni Capuozzo in una ricostruzione degli eventi del fatidico 15 febbraio 2012 andata in onda sabato sera su Tgcom 24. La «prova» dell'innocenza di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone si basa sul video di una tv locale che riprende a caldo le parole di Freddy Bosco, capitano ed armatore del St. Anthony appena rientrato, con a bordo i cadavere dei due pescatori, in un porto indiano. «Attorno alle 21.30 (9 pm) ho sentito un forte rumore, mi sono svegliato e ho visto un membro del mio equipaggio con il sangue che gli usciva dal naso e dalle orecchie» dichiara davanti alle telecamere il proprietario del peschereccio che secondo gli indiani sarebbe stato colpito dai nostri fucilieri imbarcati sull'Enrica Lexie. Peccato che l'incidente con la nave italiana, per il quale i due marò saranno processati a Delhi, ha avuto luogo e si è concluso fra le 16 e le 16.30 ora indiana.
Una bella differenza, di cinque ore, con la testimonianza a caldo di Bosco che fissa alle 21.30 la morte dei pescatori. Non solo: la prima comunicazione scritta del centro di controllo marittimo indiano di Mumbai, che chiede alla nave italiana di invertire la rotta è delle 20.36, ora locale. Gli indiani parlano solo di «un incidente a fuoco di pirateria con un sospetto skiff (imbarcazione usata dai bucanieri, nda)». Il comandante, Umberto Vitelli, risponde 11 minuti dopo confermando che sta cambiando rotta per rientrare al porto di Kochi, come richiesto. Prima ancora gli indiani avevano comunicato con la Lexie via telefono satellitare chiedendo cosa fosse accaduto. Lo stesso comandante aveva diramato l'allarme del sospetto attacco pirata respinto dai marò e la comunicazione era stata notata da Mumbai.
Vitelli, prima di virare, aveva voluto la richiesta scritta via mail dagli indiani, giunta alle 20.36 locali. A bordo il computer con la posta elettronica, secondo la società armatrice, ha l'ora italiana (4 ore e mezzo indietro rispetto alla costa indiana). Nave Lexie ha gettato le ancore in porto a Kochi verso la mezzanotte locale del 15 febbraio. Nel frattempo il St. Anthony attracca nel porto di Neendakara e alle 23.15, Bosco dichiara per due volte, davanti alle telecamere, che hanno sparato da una nave contro il suo peschereccio alle 21.30. Ad un certo punto si vede anche un poliziotto alle sue spalle, che deve aver sentito la prima dichiarazione a caldo del capitano e armatore del St. Anthony.
Nella ricostruzione di Tgcom24 si fa notare che nello stesso tratto di mare "alle 22.20 la nave greca Olympic Flair comunica all' Organizzazione Marittima Internazionale) di aver subito un attacco da due imbarcazioni di pirati, che desistono davanti all'allerta dell'equipaggio". A bordo, dopo varie smentite, i greci ammettono che c'erano dei contractor, delle guardie private, ma sostengono che fossero disarmati. Potrebbe anche trattarsi di una voluta ammissione.
Se la dichiarazione a caldo di Bosco della sparatoria in mare alle 21.30 venisse confermata coinciderebbe con la denuncia dello sventato arrembaggio al mercantile greco resa nota meno di un'ora dopo.
L'unico dato certo è che i greci sono già lontani e non hanno alcuna intenzione di tornare indietro, mentre l'Enrica Lexie sta docilmente rientrando in porto con i marò convinti di non aver ucciso nessun pescatore perchè hanno sparato in acqua.
La nave italiana diventa un capro espiatorio perfetto in tempi di campagna elettorale locale con il risultato che Latorre e Girone vengono incastrati.
Fausto Biloslavo - Lun, 01/07/2013 - www.faustobiloslavo.eu