L'annosa
questione dei nostri Marò detenuti in India ed in attesa di un chiaro capo
d'imputazione dal punto di vista giuridico, rasenta oramai una squallida farsa
se non fosse per la gravità dei fatti alla base della controversia. Rinvio ai precedenti post per la spiegazione dei
fatti. Una disputa politico-diplomatica
che non ha riscontro nella nostra storia della Repubblica. Sicuramente tutti
ricordiamo altre discutibili vicende (soprattutto con gli USA) accadute negli
anni addietro, ma mai come in questo caso si è trattato di uno snervante lungo
negoziato politico-diplomatico che ancora non riesce a vedere la conclusione.
Snervante soprattutto per i nostri Marò e per i loro familiari. Allo stato
attuale, e dopo circa due anni (!) dai tragici eventi (nei quali, va detto per onestà
intellettuale, furono uccisi due pescatori indiani e che è necessario fare
giustizia) non è stato ancora formulato il capo d'imputazione per i nostri
militari. E' un comportamento sconcertante in violazione delle regole
internazionali ed in violazione dei diritti fondamentali della persona, diritti
generalmente ed universalmente riconosciuti all'individuo, in qualsiasi momento
della sua vita. Anche durante lo stato detentivo. Anche durante misure
cautelari in attesa di una sentenza. Basti pensare, per fare un solo esempio,
ai divieti di tortura e di trattamenti inumani e degradanti del detenuto
riconosciuti da tutte le "nazioni civili" e codificati in varie
convenzioni internazionali, in norme costituzionali e "carte dei
diritti". Anche dall'India. Ciò appare sorprendente laddove si consideri,
con tutte le cautele del caso, che l'India è da considerare come la più grande "democrazia"
al mondo (quante accezioni di
democrazia?), con più di un miliardo di cittadini, ancorchè l'esercizio di tali
diritti risente delle grandi dimensioni del paese,
dei diritti delle varie popolazioni molto frammentati e diversificati da
regioni a regioni, nonché dalla variegata diversità etnica e religiosa presente
sul territorio. A tal riguardo, più volte Human Rights Watch, che lo ricordo è un'organizzazione
internazionale non governativa che si occupa della difesa dei diritti umani, nonchè il
relatore speciale delle Nazioni Unite
sulla situazione del rispetto e difesa dei diritti umani (2011), hanno espresso
preoccupazioni per il rispetto in India di tali diritti e libertà fondamentali,
posto che sono stati riscontrati numerosi casi di torture, maltrattamenti,
scomparse, minacce, arresti e detenzioni arbitrarie, false accuse e
quant'altro. Non è questo a quanto consta il caso dei Marò. Tuttavia, nei
trattamenti disumani e degradanti vanno annoverate non soltanto le pene
corporali e materiali, ma anche le costrizioni psicologiche, immateriali, il
senso di incertezza reiterata, la minaccia di una conclusione tragica degli
eventi con la pena di morte, che i nostri marò stanno subendo da circa due
anni. In questo intricato contesto vale la pena analizzare l'accordo
internazionale bilaterale tra Italia ed India firmato il 10 agosto 2012, cioè
nel bel mezzo della contesa, ed entrato in vigore il 4 novembre 2012. L'accordo
ratificato in Italia con la legge 26 ottobre 2012, n. 183 è rubricato "(Accordo)
sul trasferimento delle persone condannate"
ed è stato adottato dai due governi cira sette mesi dall'inizio della
controversia internazionale. Il che avrebbe dovuto stemperare le tensioni
laddove lo strumento giuridico si pone l'obiettivo precipuo, come recita il
preambolo dell'accordo, di "sviluppare la
cooperazione per il trasferimento delle persone condannate al fine di
facilitarne la riabilitazione sociale". Sorprendente! Vediamo il contenuto
dell'accordo e i suoi limiti nelle parti essenziali. Nell'art. 1, rubricato "Definizioni"
spiccano il contenuto delle lettere a), b) e d). Sub a) "condanna" è
qualsiasi pena o misura privativa della libertà personale inflitta da un
giudice a seguito della commissione di un reato per un determinato periodo di
tempo o per tutta la vita; sub b) "sentenza" è una decisione del
giudice con la quale venga inflitta una condanna; sub d) "persona
condannata" è la persona che sconta una pena detentiva in seguito ad una
sentenza pronunciata del giudice. Le norme sono chiare ma a tal riguardo non
appare conforme l'atteggiamento del governo indiano posto che siamo ancora in
attesa (non dico) della sentenza (definitiva) bensì del mero capo
d'imputazione. Mi pare che i termini equi e ragionevoli del processo si
applichino anche in India. Dall'interpretazione funzionale dell'accordo
bilaterale emergono alcune ipotesi percorribili. Durante questa fase
lunghissima, in attesa del capo d'imputazione e della conseguente sentenza, i
due marò sarebbero potuti essere rimpatriati (in attesa di giudizio) posto che,
ai sensi dell'accordo, non è necessario una sentenza formale bensì qualsiasi "misura
privativa della libertà personale inflitta da un giudice a seguito della
commissione di un reato" [sub a) e sub b)]. Secondo l'art. 2 "una
persona condannata nel territorio di uno Stato Contraente può essere trasferita
nel territorio dell'altro al fine di scontare la pena che gli è stata
inflitta"; e ciò vale sia per una sentenza di condanna (che ancora non
c'è), sia per qualsiasi "misura privativa della liberta' personale
inflitta da un giudice a seguito della commissione di un reato" in quanto "persona
condannata" [sub. d)], che richiama la nozione di "condanna" sub
a). È la persona, tuttavia, che deve "manifestare allo Stato trasferente o
a quello ricevente la propria volontà di essere trasferito" [art. 2,
parag. 1] ed è altresì necessario che gli Stati contraenti siano d'accordo sul
trasferimento [art. 4, parag. g)].
Ai sensi dell'art. 2, parag. 4), l'accordo non è tuttavia applicabile se la
persona è stata condannata per un reato previsto dalla legge militare. La norma
non specifica a quale ordinamento giuridico deve appartenere la "legge
militare": se a quello di provenienza della persona che ha commesso il
reato, ovvero alla legge territoriale nel quale il reato è stato consumato. In
ogni caso mi sembra acclarato che il fatto è avvenuto in acque internazionali,
pertanto la norma in questione non rileverebbe dal punto strettamente
giuridico. Ma la realtà, come si sa, ha preso un'altra prospettiva. Altre
limitazioni all'esecuzione dell'accordo sono rilevabili nell'art. 4 ("Condizioni
per il trasferimento"), in particolare nella lett. b) laddove si specifica
che l'accordo si applica soltanto se "la sentenza è definitiva"; con
ciò ponendosi in contrasto con la su citata norma che sancisce che non è
necessario una sentenza bensì qualsiasi "misura privativa della libertà
personale inflitta da un giudice a seguito della commissione di un reato"
[sub a) e sub b)]. Qualora l'interpretazione funzionale non sia gradita
occorrerà attendere una sentenza del giudice indiano. Fermo restando il
principio che vede la possibilità di scontare la pena in Italia. In effetti, il
trasferimento della persona intenderebbe, da un lato, smussare le tensioni
politico-diplomatiche tra i due Stati e garantire in egual misura allo Stato trasferente
l'impegno dello Stato ricevente a provvedere al restante della pena;
dall'altro, favorire il reinserimento sociale del "condannato" nel
suo ambiente di origine che, come sottolineato, è un obiettivo fondamentale che
informa l'intero accordo. A tal riguardo "le autorità dello Stato
ricevente devono continuare l'esecuzione della condanna rispettando la natura e
la durata della pena inflitta dalla sentenza dello Stato trasferente",
ancorché "l'esecuzione della sentenza sarà disciplinata dalla legge dello
Stato ricevente e soltanto tale Stato sarà competente per l'adozione di tutte
le relative decisioni" (art. 9). Si sottolinea che l'accordo è applicabile
all'esecuzione di condanne inflitte prima e dopo la sua entrata in vigore (art.
17) e pertanto applicabile in ogni caso alla fattispecie in esame. Che
aggiungere? Si attende il capo d'imputazione e la relativa sentenza
considerando che gli strumenti per l'esecuzione della stessa, nel rispetto dei
canoni di umanità e pacificazione, possono essere utilizzati nel miglior modo
possibile in favore dei due Marò che già hanno subito non poche vessazioni.

giovedì 23 gennaio 2014
lunedì 20 gennaio 2014
L'Italia di oggi alla luce della crisi
Attraversiamo un momento storico difficile. Da anni ormai. La credibilità dei nostri politici è pressochè a zero. Si chiedono ai cittadini ulteriori sforzi, sacrifici, in nome delle richieste dell'Unione europea e della solidarietà umana. Le colpe del nostro status sono sempre imputate "al di fuori" dei nostri confini; il capro espiatorio è l'UE. Lo "scaricabarile" preferito dai nostri governanti da sempre. Eppure all'UE non piace fare la parte del gendarme; del giudice dei conti nazionali; del supervisore della corretta gestione dei parametri; del PIL del debito. Occorre tuttavia comprendere che le regole valgono per tutti i 28 Stati membri e per tutti i sistemi nazionali. Alcuni sono in regola; altri hanno passato brutti momenti ma si sono ripresi magnificamente; altri non ce la fanno a rimettersi in riga, pur con buon impegno; altri ancora perseverano nella cattiva gestione della cosa pubblica sperando che un "Dio superiore" scenda in terra è li aiuti. Che dire? Occorre un governo che governi (sembra lapalissiano!); ricordo la frase di W. Churchill allorchè durante i bombardamenti del Regno Unito fu nominato Primo Ministro. Promise ai suoi concittadini solo «lacrime, sudore e sangue»; non promise un futuro roseo nè di abbassare le tasse, nè false informazioni sulla tenuta dei conti dello Stato. Siamo ad un "turning point" definitivo; non un punto di svolta ma un punto di non ritorno. Allora diamoci una mano. Siamo il Paese di Leonardo, di Dante, di tanti fantastici italiani, perchè no di Altiero Spinelli. Noi discendiamo da costoro. Se non siamo in grado di farcela allora dobbiamo prendere atto che l'Italia è cambiata. In molto peggio.
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