Da qualche
tempo a questa parte l'Ungheria e la Repubblica Ceca, da ultimo anche la
Danimarca, tutti e tre Stati membri dell'Unione europea, mostrano dei
comportamenti che non sono conformi ai Trattati UE sia dal punto di vista
dell'applicazione delle norme comunitarie, sia per quanto riguarda il rispetto
dei diritti e delle libertà fondamentali. Ricordo soltanto la sospensione di
Schengen, la costruzione di muri, le cariche della polizia nazionale ecc. Con
diversi accenti e diverse intensità entrambi gli Stati membri sono sotto la
lente della Commisssione europea e delle discussioni politico-diplomatiche in
seno al Consiglio europeo e al Consiglio dell'Unione. Anche il Parlamento
europeo è in fermento. Ci si chiede, insomma, a fronte di siffatti comportamenti
riprovevoli in ordine alla gestione dei flussi migratori in Europa - che
rappresentano un fatto (non una questione) globalizzato e che bisogna gestire
nel rispetto dei diritti (diritto essenziali alla vita, al cibo, all'acqua, a
farsi una famiglia, ecc.) –se il diritto dell'Unione europea ha previsto
eventuali rimedi alle violazioni dei diritti fondamentali da parte di uno Stato
già membro dell'UE. Ciò perchè, com'è noto, per aderire all'Unione uno Stato
europeo ai sensi dell'art. 49 TUE deve preventivamente rispettare alcuni
parametri (criteri) politici, economici e di rispetto del diritto UE vigente, pena
il rinvio dell'ingresso dello Stato nella UE e la non adesione a pieno titolo
(si pensi alla Turchia, ma non solo). E questo è il punto. Cioè a dire, uno
Stato che chiede di entrare nel Club UE deve rispettare vari criteri per
entrare nella UE (35 capitoli da rispettare dai diritti fondamentali al mercato
interno ecc.) ma, quid iuris una
volta divenuto Stato membro a pieno titolo? Il sistema dei Trattati e la
legislazione vigente propongono rimedi a tal riguardo oppure non si è più
«fiscali» nelle valutazioni come per l'ingresso? Con queste poche righe evidentemente
non esaustive nè definitive, vorrei solo mettere in evidenza che i Trattati in
vigore (TUE e TFUE + Carta UE) presentano rimedi e procedure che potrebbero
essere adoperate dalle istituzioni UE nei confronti di Stati membri che violano
i diritti e le libertà fondamentali. Pertanto, l'oggetto delle riflessioni che
seguono, giuridiche e non politiche, riguarda esclusivamente
la protezione dei diritti fondamentali nell'Unione europea e le loro eventuali violazioni
da parte degli Stati membri. Giacchè, come non sempre si sa, l'Unione europea
si occupa anche di siffatte questioni e non soltanto di unione monetaria, euro
e mercato. Ci viene in aiuto l'art. 7 TUE che stabilisce una procedura
di tipo sanzionatorio, ancorchè più politica che giurisdizionale come vedremo,
nei confronti di uno Stato membro che violi, in modo grave e persistente, uno o
più valori sui quali l'Unione si fonda (rispetto
della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello
Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle
persone appartenenti a minoranze (art. 2 TUE). In linea di
principio, siffatte violazioni potrebbero essere sanzionate con la sospensione
di alcuni diritti dello Stato in seno all'UE, quali, la sospensione
dell'erogazione di fondi, contributi, prestiti, fino alla extrema ratio della sospensione dei diritti di voto nel Consiglio
dell'Unione (non nel Consiglio europeo). La procedura, tuttavia, è complessa e
farraginosa; nel senso che i redattori della norma, cioè gli Stati membri,
hanno da un lato voluto inserire nel Trattato una sorta di deterrente ma,
dall'altro, nello stesso tempo, l'hanno resa di non facile applicazione. Una
norma elaborata dagli Stati per sanzionare uno di loro…L'art. 7 fu inserito nel
Trattato sull'Unione già nel 1997 durante la riforma di Amsterdam; così come lo
leggiamo oggi trae origine dal
caso Haider in Austria, leader del Partito FPÖ (Partito austriaco delle
libertà), ultranazionalista e xenofobo, che negli anni 2000 sembrava dovesse
salire al governo austriaco. Cioè nel governo di uno Stato membro UE. La
procedura «di allarme», o preliminare, può essere avviata su proposta motivata (sic!) di un terzo degli Stati membri (!), dal
Parlamento europeo o dalla Commissione europea e potrebbe concludersi con
decisione (di accertamento) del Consiglio UE (che delibera alla maggioranza dei
quattro quinti (!) dei suoi membri (ovviamente senza lo Stato membro in
questione), previa approvazione del Parlamento europeo [a maggioranza dei due
terzi dei voti espressi, che rappresenta la maggioranza dei membri che lo
compongono (!) (cfr. l'art. 354 TFUE)], può (!) constatare che esiste un
evidente rischio di violazione grave (!) da parte di uno Stato membro dei
valori di cui all'articolo 2 TUE. Prima di procedere a tale constatazione il
Consiglio ascolta lo Stato membro in questione e può rivolgergli delle raccomandazioni,
deliberando secondo la stessa procedura. Successivamente, andando avanti nella
procedura, anche il Consiglio europeo, deliberando all'unanimità su proposta di
un terzo degli Stati membri o della Commissione europea e previa approvazione
del Parlamento europeo, può constatare l'esistenza di una violazione grave e
persistente da parte di uno Stato membro dei valori di cui all'articolo 2, e
quindi confermarla, dopo aver invitato tale Stato membro a presentare
osservazioni. Così che, dopo il placet del Consiglio europeo, il Consiglio,
deliberando a maggioranza qualificata, può decidere di sospendere alcuni dei
diritti derivanti allo Stato membro in questione dall'applicazione dei
Trattati, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo di tale
Stato membro in seno al Consiglio. Nell'agire in tal senso, il Consiglio tiene
conto delle possibili conseguenze di una siffatta sospensione sui diritti e sugli
obblighi delle persone fisiche e giuridiche. La «sanzione» non si spinge fino
all'espulsione dello Stato membro (istituto assente nei Trattati) benchè gli
effetti delle sospensioni hanno un esito molto simile all'espulsione. Anzi,
forse peggiore, giacché lo Stato «sospeso» deve continuare a rispettare gli
ogglighi derivanti dai Trattati e delle decisioni prese dagli altri Stati
membri, dalla Commissione e dal Parlamento europeo. Fermo restando il diritto
di recedere dall'Unione ex art. 50 TUE. La procedura è quindi saldamente nella
sfera di Consiglio UE e Consiglio europeo le istituzioni rappresentative degli
Stati e dei Governi. Peraltro la Corte di giustizia è fuori dal merito della
questione e, ai sensi dell'articolo 269 TFUE, è competente a pronunciarsi unicamente
sulla legittimità di un atto adottato dal Consiglio europeo o dal Consiglio (a
norma dell'articolo 7 TUE) unicamente su domanda dello Stato membro oggetto di
una constatazione (!) del Consiglio europeo (!) o del Consiglio UE (!) e per
quanto concerne il rispetto delle sole prescrizioni di carattere procedurale
previste dal suddetto articolo (!). C'è d'aggiungere altro? Traete le
conclusioni.

giovedì 10 settembre 2015
venerdì 19 giugno 2015
Grexit: alcune riflessioni sulle conseguenze politiche, economiche e sociali del mancato accordo tra Troika (o Gruppo di Bruxelles) e Grecia. Vae victis!
Qualche mese fa
ho riletto il saggio di John Maynard Keynes, del 1919, "Le conseguenze
economiche della pace" (Adelphi 2012), convinto che la sua (sorprendente)
attualità possa essere utile nella risoluzione della questione della Grecia. Vae victis! Guai ai vinti. É questo il
senso della critica di Keynes ai vincitori della prima guerra mondiale. Nella
questione odierna non ne è coinvolta soltanto la Grecia, si badi bene, che
funge da casus belli, ma tutta
l'Unione europea intendendo i 28 Stati membri, le Istituzioni e, quindi,
l'intero sistema. Ripercussioni sono verificabili anche oltre l'Europa posto
che i mercati finanziari e la globalizzazione sono evidentemente sistemi
interconnessi. Keynes nel suo saggio ha predetto la catastrofe all'indomani del
Trattato di Versailles che ha stabilito le riparazioni e i risarcimenti nei
confronti della Germania all'indomani della conclusione della prima guerra
mondiale. Egli scriveva "chiedendo l'impossibile hanno sacrificato la
sostanza all'apparenza e alla fine perderanno tutto" (p. 13). E ancora
"una guerra dichiaratamente combattuta in difesa della sacralità degli
impegni internazionali, che termina con la patente violazione di uno tra i più
sacri di tali impegni da parte deicampioni vittoriosi di questi ideali" (p. 123). Sorprendentemente
e tragicamente attuale. Prendendo a modello le considerazioni premonitrici di
Keynes, una prima considerazione da uomo della strada è
che a Bruxelles nei negoziati fiume che si susseguono oramai da anni, si sta
"scherzando" con il fuoco. Si è giunti alla stretta conclusiva. Alla fine
quale che sarà la decisione finale, non ci saranno vincitori e vinti nè da un lato nè dalll'altro. Tutti
hanno (già) perso e gli attori principali di questa incredibile farsa porteranno
con sè la responsabilità del futuro dei nostri figli e dei nipoti. La questione
è meramente politica, punto. Di stupidità politica. Da un lato le richieste dei
cc.dd. "creditori" europei, vale a dire, la c.d. "Troika"
(due rappresentanti UE – Commissione europea e BCE) dall'altro le richiesta
internazionali del Fondo Monetario Internazionale (FMI). Troppa ostinazione e rigidità da parte dei creditori e troppe promesse ai propri elettori, oggi irrealizzabili, da parte
del governo greco. Le cause che hanno portato a questa impasse politica sono
note sia da un lato che dall'altro. Jeffry Sachs nel suo articolo "Il default greco? Un
impatto paragonabile al crack Lehman" (crisi USA del 2008) pubblicato ne
Il Sole 24 Ore del 18 giugno 2015 a pag. 2, ammonisce la rigidità e le
richieste dei creditori ritenendole "autolesionistiche". Sono
d'accordo. Ci vorrebbe buon senso politico. Giacchè una parte importante della
popolazione greca soffre la fame. Non c'è d'aggiungere altro. Integrazione
(europea) vuol dire anche rispettare le "eredità culturali, religiose e umanistiche
dell'Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti
inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia,
dell'uguaglianza e dello Stato di diritto" ricordando sempre
"l'importanza storica della fine della divisione del continente europeo e
la necessità di creare solide basi per l'edificazione dell'Europa futura"
nonché accrescere "la solidarietà tra i loro popoli rispettandone la
storia, la cultura e le tradizioni" (Preambolo Trattato
sull'Unione europea-TUE). Sono belle espressioni scolpite nei Trattati,
rispettiamole, applichiamole, ricordando Keynes. L'Europa è la culla della
civiltà e dei diritti non dimentichiamolo mai.
lunedì 27 aprile 2015
L'articolo di Luca Ricolfi apparso su Il
Sole 24 Ore di ieri, che segnalo, analizza la ricerca della Fondazione David
Hume sulle disuguaglianze. Vale la pena approfondire la tematica. Non sempre i
dati e le statistiche fotografano ciò che accade nell'uomo nella sua intima
esistenza e all'interno della famiglia. Se preferite nel contesto sociale.
Buona lettura!
La leggenda delle disuguaglianze crescenti
Da quanti anni lo sentiamo dire? Da quanti anni lo
leggiamo sui giornali? Da quanti anni gli studiosi si affannano a
ricordarcelo?Il mondo sta diventando sempre più diseguale, ci ripetono. Un po'
ovunque le disuguaglianze stanno crescendo in modo esplosivo, o esponenziale,
come si usa dire con abuso di linguaggio (“esponenziale” non significa veloce,
ma semplicemente a tasso costante). E l'aumento delle disuguaglianze, nel giro
di pochi anni, è anche diventato il principale imputato per la crisi che ci
attanaglia dall'agosto del 2007.
Se la crescita si è fermata, ci dicono, è perché vi è
stata una spaventosa crescita delle diseguaglianze.Ma è vero che le
diseguaglianze stanno crescendo in modo così esplosivo? Il dossier della
Fondazione David Hume, che analizza più di 50 anni di storia della
diseguaglianza in quasi tutti i Paesi del mondo, fornisce ora una base di dati
ampia e relativamente completa per provare a fornire qualche risposta (vedi le
pagine 2-5 del giornale). Ed eccone alcune.
Se consideriamo il mondo come un unico Stato, e misuriamo
il grado di diseguaglianza fra i cittadini del mondo, la diseguaglianza è molto
cresciuta negli anni '80, ma ha smesso di crescere intorno al 1992, ed ha
cominciato a diminuire sistematicamente a partire dal 2000. Dunque, nel XXI
secolo la tendenza della diseguaglianza mondiale è alla diminuzione.La
diseguaglianza fra i livelli di benessere delle nazioni, o diseguaglianza
internazionale, ha invece smesso di crescere già intorno al 1990, e si sta
riducendo a un ritmo molto rapido da circa un quarto di secolo.E le
diseguaglianze interne ai vari Paesi del mondo? Qui tutto si può dire, tranne
che esistano tendenze generali. La diseguaglianza interna sta crescendo in modo
preoccupante in Cina (dal 1982) e in India (dal 2002), ma nel resto del mondo
il grado medio di diseguaglianza, dopo aver raggiunto un massimo nel 1996, ha
un andamento sostanzialmente piatto, frutto di movimenti molto complessi e
diversi da Paese a Paese e da periodo a periodo.
La diseguaglianza, ad esempio, nei Paesi ex comunisti ha
fatto un balzo in avanti nei primi anni '90, dopo la caduta del muro di
Berlino, mentre in America latina è in costante diminuzione dall'inizio del XXI
secolo.
E nelle società avanzate?
Qui, forse, incontriamo le
maggiori sorprese. Se consideriamo l'insieme dei Paesi Ocse (più Singapore e
Hong Kong), la tendenza principale della diseguaglianza è stata all'aumento fra
gli anni '80 e gli anni '90, ma negli ultimi 10-15 anni non presenta una
tendenza netta, e se proprio vogliamo trovarne una, è a una lievissima
diminuzione. In alcuni Paesi (ad esempio il Giappone) prevale nettamente la
tendenza all'aumento, in altri (ad esempio la Turchia) prevale quella alla
diminuzione, in altri ancora non è possibile rintracciare alcuna tendenza
sistematica.
Fra questi ultimi vi è anche l'Italia. Da noi è da vent'anni (dal
1993) che il grado di diseguaglianza (misurato con l'indice di Gini) oscilla
intorno a 0.33. Un valore più basso della media (ponderata) dei Paesi Ocse
(pari a 0.35 nel 2013), e decisamente più basso del valore (0.37) che l'indice
aveva in Italia alla fine dei “gloriosi 30 anni”, quelli caratterizzati
dall'espansione dello Stato sociale.
E negli anni della crisi?
Se guardiamo alle società
avanzate, i dati disponibili, talora fermi al 2012 o al 2013, non consentono
alcun racconto unitario, perché la dinamica della diseguaglianza varia
considerevolmente non solo a seconda dei Paesi, ma anche in funzione del modo
di misurare la diseguaglianza, che può riferirsi al reddito o alla ricchezza
netta, a tutti gli strati o solo agli strati estremi (i super-ricchi e gli
ultra-poveri). E tuttavia, fra le innumerevoli storie che emergono dai dati
disponibili, ve n'è almeno una che si presenta con inquietante frequenza,
quella che potremmo chiamare della “curva a V”. In parecchi Paesi (fra cui
l'Italia) il profilo della diseguaglianza negli anni a cavallo della recessione
2008-2009 sembra essere stato prima calante e poi crescente, come se la crisi
avesse prima penalizzato e poi premiato i ricchi. Difficile pensare che questo
movimento, laddove si è manifestato, non abbia a che fare con il movimento
degli indici azionari, prima calanti e poi crescenti.
Se questa lettura avesse qualche fondamento, sarebbe difficile non notare
un paradosso. I progressisti sono ovunque schierati per le politiche di
espansione monetaria, come il Quantitative Easing di Draghi, ma paiono non
rendersi conto di un punto recentemente sottolineato da Pascal Salin, in uno
dei libri più interessanti sulla lunga crisi di questi anni (“Tornare al
capitalismo per evitare le crisi”, Rubbettino 2011): i tassi di interesse bassi
inflazionano il valore degli asset (titoli e immobili), favoriscono la
speculazione, e per questa via, premiano innanzitutto i livelli alti della
gerarchia sociale.
Insomma, dopo anni in cui la diseguaglianza aveva cessato
di crescere, potrebbero essere proprio le politiche pensate per far ripartire
la crescita a innescare un nuovo processo di aumento delle diseguaglianze, dopo
quello degli anni della globalizzazione. È solo un'ipotesi, ma forse varrebbe
la pena rifletterci su.
sabato 17 gennaio 2015
Corte di giustizia UE e «Outright Monetary Transactions» della BCE
Negli ultimi giorni tutti i quotidiani nazionali trattano la questione del
programma della Banca Centrale europea (BCE) «Outright Monetary Transactions»
(OMT) vale a dire, un programma da
parte della BCE di acquisto di titoli del debito pubblico emessi dagli Stati
dell’eurozona. Non scendo nel merito già ampiamente trattato da economisti e
monetaristi. Se ne parla perché la Corte costituzionale tedesca (Bundesverfassungsgericht - «BVerfG») è
stata adita da vari politici, professori di diritto e di economia, un
giornalista ed una ONG tedeschi (nel diritto tedesco il ricorso di persone alla
Corte è possibile) mettendo in discussione la legittimità del programma OMT
della BCE. Il rinvio del «BVerfG» è molto importante nel dialogo tra le Corti in Europa laddove si tratta
del primo rinvio pregiudiziale alla
Corte di giustizia UE nella sua storia, dopo circa 60 anni di integrazione
europea! Meglio tardi che mai. Peraltro anche la nostra Corte Costituzionale non
è da meno giacché ha rinviato per la prima volta nella storia alla Corte UE nel
2007. I quotidiani non ne hanno neanche fatto menzione. Ma non è questo che
voglio sottolineare. Mi piace, viceversa, attirare l'attenzione sul fatto che i
quotidiani nazionali, e mi riferisco ai più importanti, hanno presentato titoli
a caratteri cubitali come: «la Corte UE da il via libera al piano Draghi»; «la Corte UE ritiene compatibili
con i Trattati UE il programma OMT»;
e tanti altri titoli del genere. Qual è il problema? Si tratta, come sempre
d'altronde, di cattiva informazione (o ignoranza in materia?) su questioni che
riguardano l'Unione europea. E' una battaglia (persa) che perseguo da anni. Infatti
a evocare la compatibilità dell'OMT con i Trattati UE è stato l’avvocato generale Cruz Villalón e non la Corte UE come erroneamente si
afferma nei titoli. E' cosa diversa. Peraltro, qualche giornalista, nel testo
dell'articolo, spiega che «il parere dell'avvocato generale di regola viene ripreso dalla Corte che
non se ne discosta nella sua sentenza». E, pertanto, è ragionevole pensare alla prossima sentenza della Corte UE
negli stessi termini dell'avvocato generale. Niente di più errato. Non voglio scendere nel dettaglio
tecnico sui ruoli dell'avvocato generale e della Corte (su cui rinvio
all'approfondito studio del mio Amico e Collega Marco Borraccetti, L'avvocato
generale nella giurisdizione dell'Unione europea, Napoli, Editoriale
Scientifica, 2011), ma segnalare,
ancora una volta, come l'informazione sull'Unione europea è assolutamente
approssimativa se non erratae, quindi, fuorviante. E, in verità, l'Ue non ne ha
bisogno, attese le campagne populiste di talune formazioni politiche europee
(per carità legittime dal punto di vista democratico ma strumentali e fazione)
non sempre coerenti con la realtà dei fatti.
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