mercoledì 27 marzo 2013

L'intricata questione dei marò in India (parte terza)


Con le irrituali dimissioni del ministro degli esteri italiano ieri in Parlamento, la situazione politica interna ha mostrato una spiacevole divisione del governo sulle scelte fatte in ordine alla questione del rientro in India dei nostri marò. Con conseguenze immaginabili sul piano internazionale, posto che i media ne hanno dato ampio riscontro. E ciò aggrava una immagine e la credibilità del governo del nostro paese (dell'Italia tout court) già quanto mai discussa e criticata in questa fase storica. L'aspetto politico lo lascerei alle coscienze e ai giudizi di ciascuno. Al giurista compete, viceversa, chiarire oltremodo il quadro giuridico di riferimento, al fine di formulare ipotesi su dati concreti dell'incresciosa storia. Né vale la pena di ritornare su errori commessi dal governo italiano (si vedano i due precedenti post), a partire dalla fonte primaria delle successive illegalità: in primo luogo, 1) dalla improvvida decisione (a seguito di inganno o meno) di far entrare la nave italiana Enrica Lexie nelle acque territoriali indiane e quindi (addirittura!) attraccare nel porto di Kochi (Cochin) dove i due militari italiani sono stati arrestati e tradotti in carcere; successivamente, 2) alla strategia di contestare la giurisdizione indiana in ordine al luogo di commissione del fatto (alto mare, zona contigua o mare territoriale) e, 3) alla natura dell’azione dei due marò (in quanto organi dello Stato) per i quali si applicherebbe secondo il diritto internazionale la consolidata regola dell’immunità funzionale. Dal che si ricava, una volta chiarito il contesto giuridico, la giurisdizione competente a giudicare i nostri fucilieri. Tuttavia, dopo più di un anno dal fatto, con i due marò in stato di fermo e (sostanzialmente) sotto processo in India (salvo le due sortite in Italia autorizzate dalle autorità giudiziarie indiane), non si è ancora giunti alla decisione sulla giurisdizione competente. Nè la sentenza della Corte suprema indiana del 18 gennaio 2013 è risolutiva in questo senso, giacché allungando i tempi, ordina sostanzialmente la costituzione di una futura "Corte speciale" con sede a Nuova Delhi. Sarà questa Corte a giudicare (illegittimamente) i nostri marò? Per ora no! La Corte speciale dovrà pronunciarsi, prima che sulla colpevolezza dei marò, sulla questione della giurisdizione competente. In una nota verbale del governo italiano si faceva riferimento anche alla mancata risposta (positiva) del governo indiano alla richiesta italiana di attivare le forme di cooperazione previste dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) del 1982 (ex art. 100 e art. 283), per la ricerca di una soluzione diplomatica e, se necessario, arbitrale o giudiziale del caso. All’indomani della sentenza del 18 gennaio 2013 della Corte Suprema indiana, infatti, il governo italiano ha proposto formalmente al governo di New Delhi l’avvio di un dialogo bilaterale per la ricerca di una soluzione diplomatica del caso, come suggerito dalla stessa Corte, là dove richiamava l’ipotesi di una cooperazione tra Stati nella lotta alla pirateria, secondo quanto prevede la citata Convenzione UNCLOS. Alle richieste italiane ha fatto seguito il diniego del governo indiano a soluzioni previste dal diritto internazionale ribadendo la competenza della giurisdizione indiana. Dal che, fa seguito la ulteriore controversia sul rientro in India dei marò (in permesso per le votazioni politiche): al cambio di atteggiamento in ordine al precedente impegno del nostro governo attraverso l'ambasciatore italiano in India (c.d "affidavit"), c'è stata la (illegittima) decisione della Suprema Corte indiana del 18 marzo scorso di "non autorizzare l'ambasciatore italiano a lasciare il Paese" senza previa autorizzazione. Si tratta di una decisione adottata in grave violazione della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 1961 che codifica principi universalmente riconosciuti. Principio fondamentale per le relazioni tra gli Stati, e principio-cardine consolidato di diritto consuetudinario e pattizio ribadito più volte dalla Corte Internazionale di Giustizia. Una serie di comportamenti deprecabili sul piano diplomatico, sia dall'una che dall'altra parte, che evidenziano una sorta di astiosità politica non giustificabile sul piano del diritto internazionale e più propriamente diplomatico.

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