E' già iniziata la "bagarre" governo-parlamento sulla prossima e imminente elezione del futuro Presidente della Repubblica Italiana. Ai sensi dell'art. 87 "Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale. Può inviare messaggi alle Camere. Indice le elezioni delle nuove Camere e ne fissa la prima riunione. Autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo. Promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti. Indice il referendum popolare nei casi previsti dalla Costituzione. Nomina, nei casi indicati dalla legge, i funzionari dello Stato. Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra, l'autorizzazione delle Camere. Ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere. Presiede il Consiglio superiore della magistratura. Può concedere grazia e commutare le pene. Conferisce le onorificenze della Repubblica". Queste le prerogative generali del Presidente. Ma: l'art. 88 ricorda che: "Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse. Non può esercitare tale facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato, salvo che essi coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura". Inoltre: secondo l'art. 89 "Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità. Gli atti che hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei ministri". Una serie di "pesi e contrappesi" di "checks and balances" tipiche dello Stato costituzionale a presidio della democrazia e del buon funzionamento costituzionale dello Stato e della sua forma di governo. Inoltre, ai sensi dell'art. 139 "La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale". Quindi che aggiungere. La persona (il cittadino) che può essere eletto Presidente della Repubblica può essere chiunque; l'unico limite è posto dall' art. 84 che sancisce che "Può essere eletto Presidente della Repubblica ogni cittadino che abbia compiuto cinquanta anni di età e goda dei diritti civili e politici". Anche un non politico dunque; proveniente dal mondo della cultura, della scienza, sempre che rappresentativo del nostro Paese, delle nostre tradizioni, della nostra cultura (delle nostre culture?); sempre che dia tutte le garanzie di indipendenza, imparzialità e autonomia che la Costituzione richiede. Inoltre sia di specchiata moralità e rappresenti la Nazione in conformità con il giuramento alla bandiera previsto dall'art. art. 91 (Il Presidente della Repubblica, prima di assumere le sue funzioni, presta giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione dinanzi al Parlamento in seduta comune). Quanto alla moralità richiesta non ci sarebbe bisogno di una norma costituzionale ma, direi, una norma etica, di buon senso. Il Presidente rappresenta l'unità nazionale, la garanzia degli equilibri costituzionali al fine di non fare prevalere un potere sull'altro. Pertanto, così come "Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi" (art. 54, primo comma); a maggior ragione "Ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle, con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge (art. 54, secondo comma). E il Presidente della Repubblica è il primo cittadino!

sabato 20 dicembre 2014
domenica 9 novembre 2014
Conflitto tra supreme Corti (Corte internazionale di giustizia (ONU) e Corte costituzionale italiana) in materia di immunità degli Stati dalla giurisdizione e principi fondamentali nella recentissima sentenza Corte cost. n. 238/2014. Risarcimenti per danni a seguito di crimini di guerra. Controversia Italia-Germania.
La sentenza
della Corte costituzionale n. 238/2014 (Presidente e Relatore-Redattore
Giuseppe Tesauro) appare a dir poco rivoluzionaria, quasi "sovversiva"
(in senso positivo secondo il mio punto di vista). Per vari motivi che
brevemente (e non senza difficoltà) vado a spiegare. Rinviando a coloro che
sono maggiormente interessati 1) al sito della Corte costituzionale per il
testo integrale della sentenza e, 2) ai tempestivi commenti di Lorenzo Gradoni e
Pasquale De Sena nel Blog SIDI (http://www.sidi-isil.org/sidiblog).
Alla base del giudizio stanno i giudizi di
legittimità costituzionale promossi dal Tribunale di Firenze in ordine all’art.
1 della legge 17 agosto 1957, n. 848 (Esecuzione dello Statuto delle Nazioni
Unite, firmato a San Francisco il 26 giugno 1945) e dell’art. 1 [recte: art. 3]
della legge 14 gennaio 2013, n. 5 (Adesione della Repubblica italiana alla
Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e
dei loro beni, firmata a New York il 2 dicembre 2004, nonché norme di adeguamento
dell’ordinamento interno. Più nello specifico, il Tribunale di Firenze ha
sollevato questione di legittimità costituzionale: 1) della «norma prodotta nel
nostro ordinamento mediante il recepimento, ai sensi dell’art. 10, primo comma,
Cost.», della consuetudine internazionale accertata dalla Corte internazionale
di giustizia (CIG) nella sentenza del 3 febbraio 2012, nella parte in cui nega la giurisdizione nelle azioni risarcitorie per
danni da crimini di guerra commessi iure
imperii dal Terzo Reich nello Stato
del giudice adito; 2) dell’art. 1 della legge 17 agosto 1957, n. 848
(Esecuzione dello Statuto delle Nazioni Unite, firmato a San Francisco il 26
giugno 1945), nella parte in cui, recependo l’art. 94 dello Statuto dell’ONU, obbliga il giudice nazionale ad adeguarsi
alla pronuncia della CIG quando essa ha stabilito l’obbligo del giudice
italiano di negare la propria giurisdizione nella cognizione della causa civile
di risarcimento del danno per crimini contro l’umanità; 3) dell’art. 1
(recte: art. 3) della legge 14 gennaio 2013 n. 5 (Adesione della Repubblica
italiana alla Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali
degli Stati e dei loro beni, firmata a New York il 2 dicembre 2004, nonché
norme di adeguamento dell’ordinamento interno), nella parte in cui obbliga il giudice nazionale ad adeguarsi
alla pronuncia della CIG anche quando essa ha stabilito l’obbligo del
giudice italiano di negare la propria giurisdizione nella cognizione della
causa civile di risarcimento del danno per crimini contro l’umanità, commessi
iure imperii dal Terzo Reich nel territorio italiano, in riferimento agli artt.
2 e 24 della Costituzione. Semplificando, la questione ruota intorno agli artt.
2 e 24 della Costituzione italiana. "Le richiamate norme vengono censurate
in riferimento agli artt. 2 e 24 Cost., in quanto, impedendo l’accertamento
giurisdizionale e l’eventuale condanna delle gravi violazioni dei diritti
fondamentali subìte dalle vittime dei crimini di guerra e contro l’umanità,
perpetrati sul territorio dello Stato italiano, investito dall’obbligo di
tutela giurisdizionale, ma commessi da altro Stato, anche se nell’esercizio dei
poteri sovrani (iure imperii), contrasterebbero con il principio di
insopprimibile garanzia della tutela giurisdizionale dei diritti,
consacrato nell’art. 24 Cost., il quale è principio
supremo dell’ordinamento costituzionale italiano ed in quanto tale costituisce limite all’ingresso sia
delle norme internazionali generalmente riconosciute, ex art. 10, primo comma,
Cost., che delle norme contenute in trattati istitutivi di organizzazioni
internazionali aventi gli scopi indicati dall’art. 11 Cost. o derivanti da tali
organizzazioni". Si tratta
pertanto di valutare quale norma deve prevalere tra la consuetudine
internazionale, il diritto pattizio (Statuto ONU e Convenzione delle Nazioni
Unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni) e principi
inviolabili della Costituzione quali, nel nostro caso, la garanzia di una tutela
giurisdizionale effettiva. La sentenza, seppur "contestataria", altro
non intende fare se non garantire un adeguato livello di tutela dei diritti
individuali, ossia, garantire il risarcimento dei danni subìti a seguito di
crimini di guerra ancorché il diritto internazionale – in particolare la richiamata
sentenza della CIG del 3 febbraio 2012 – neghi questa possibilità nel rispetto
dell'immunità degli Stati dalla giurisdizione. La questione non è nuova dinanzi
alle Corti. Ricordo che anche la Corte europea dei diritti dell'uomo di
Strasburgo con la recente sentenza Al
Dulimi del 26 novembre
2013 e già la Corte di giustizia dell'Unione europea nel caso Kadi del 3 settembre
2008 avevano preso posizione nel senso della prevalenza dei diritti
fondamentali su altre norme che impedivano l'esecuzione di quei diritti. In
effetti, la Corte costituzionale, nella fattispecie, ha messo in evidenza la
carente democraticità del sistema ONU
in particolare e dell'ordinamento internazionale in generale; aspetto questo
che non può comprimere o ablare il diritto fondamentale della persona alla
tutela giurisdizionale effettiva. A me pare che una cultura dei diritti umani
si stia assestando nei gangli più intimi degli ordinamenti statali, comportando
così una evoluzione di taluni ordinamenti ancorati a logiche diplomatiche non sempre rispondenti al contesto nel quale
si opera. Soprattutto se si considera che la tutela dei diritti fondamentali è
un capitolo importante e fondamentale del diritto internazionale. E proprio per
questo, non appare più prorogabile la netta separazione a tutt'oggi evidente tra
diritto internazionale "classico" (Stati) e diritto internazionale
dei diritti umani (individui): questa sentenza a mio avviso ha un valore non
soltanto giuridico ma anche pedagogico nella prospettiva testé indicata. E'
un'occasione unica che la CIG e l'intero sistema ONU non possono lascarsi
scappare.
giovedì 18 settembre 2014
Il referendum in Scozia e l'eventuale secessione nella prospettiva dell'Unione europea.
Oggi 4,3
milioni di scozzesi vanno al voto referendario per votare se restare con il
Regno Unito oppure staccarsi in modo definitivo e creare uno Stato
indipendente. Tecnicamente si tratta di "secessione" secondo il
diritto internazionale. Le motivazioni sono molteplici e non sono oggetto di
queste riflessioni. Un dato è però chiaro: le giustificazioni
che spingono i secessionisti sono di natura culturale,
ideologica, politica ed economica; un bel melting pot. Al di là del fatto
emozionale, ciò che interessa segnalare è l'insieme delle conseguenze
giuridiche che deriverebbero dalla vittoria dei secessionisti ai quali non può
essere negato, va ricordato, manifestare il proprio pensiero (e voto)
all'interno di una democrazia compiuta e consolidata come è quella britannica.
Ricordo che la secessione non va letta soltanto in senso negativo e disastroso:
ad esempio in Europa, nella divisione della Cecoslovacchia, l'indipendenza
nazionale è stata gestita civilmente e senza traumi, sia sul piano interno sia
su quello internazionale ed europeo. Entrambi gli Stati che ne derivarono sono
membri in Europa dell'Unione europea e della Nato. Quid iuris sul versante del diritto dell'Unione europea (UE)? La
Scozia indipendente subentrerebbe sic et simpliciter nell'UE? Nell'Unione
economica e monetaria (UEM) e nell'euro? Il distacco della Scozia dalla Gran
Bretagna pone alcune questioni preliminari di diritto internazionale. In primo
luogo la soggettività
internazionale della Scozia vale a dire il suo riconoscimento da parte
della comunità internazionale. Va valutato se il nuovo Stato (organizzazione di
governo in tutte le sue articolazioni) effettivamente detiene l'esercizio del
potere di governo sulla comunità umana stanziata sul territorio de quo, che si definirebbe
eveidentemente scozzese. Questo il primo step. Successivamente il nuovo governo
(insediato e riconosciuto) dopo aver risolto le questioni "interne" può
chiedere ex novo di aderire alle
organizzazioni internazionali quali ONU, Nato e, da ultimo, l'UE giacchè nel
diritto internazionale, nella successione degli Stati, vige la regola della
cc.dd. "tabula rasa". Vale a dire non c'è continuità degli impegni
internazionali sottoscritti dal precedente soggetto internazionale. L'articolo
49 TUE stabilisce le regole per l'adesione di nuovi Stati "europei"
all'Unione. Per Stato "europeo" si intende non soltanto il dato
geografico (che pure è rilevante), bensì la presenza di un insieme di
requisiti, di valori comuni, di idee, di valori culturali che formano il DNA dello Stato che chiede di aderire
all'UE. Ad esempio al Regno del Marocco nel 1987 non fu accettata la sua
richiesta di adesione all'ora Comunità economica europea. Lo Stato richiedente
deve rispettare, pertanto, i valori "della dignità umana, della libertà, della
democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti
umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori
sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo,
dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà
e dalla parità tra donne e uomini" (art. 2 TUE). Ulteriore condizione di
accesso all'UE è il rispetto dei criteri cc.dd. "di Copenaghen", che
prendono il nome dalla sede del Consiglio europeo nel quale nel 1993 furono
decisi, che sono sostanzialmente 3 + 1. Il criterio
politico richiama i valori dell'art. 2 TUE più la stabilità di governo (c'è
bisogno di istituzioni stabili che governino in un sistema politico democratico);
in questo senso, l'adesione dello Stato al Consiglio d'Europa (da non
confondere con le istituzioni UE) ed alla Convenzione sui diritti umani è
fortemente richiesta. Il criterio
economico postula un'economia (sociale) di mercato capace di competere sul
piano della concorrenza internazionale in un regime di liberalizzazioni
controllate (antitrust). Il criterio
giuridico o dello "dell'acquis
comunitario" che richiede la capacità dello Stato di integrare nel
proprio ordinamento giuridico tutto il diritto dell'UE esistente (dagli anni
'50 ad oggi); accettando insomma diritti ed obblighi a parità con gli altri
Stati membri. Poi la prassi ha evidenziato un 4° criterio: ossia la capacità da parte dell'Unione europea di
assorbire nuovi Stati europei non alterando il ritmo e l'andamento coerente
dell'integrazione europea. Credo che la Scozia già oggi sia pressochè in regola
con suddetti parametri. La procedura di adesione, tuttavia, non è semplice e
può durare anche molti anni (si pensi alla Turchia). Dopo una fase che potremmo
definire interna all'UE (fase comunitaria) – si pensi ai pareri di Parlamento
europeo, Consiglio e Commissione – si passa alla fase intergovernativa. Afferma
l'art. 49, secondo comma, TUE "Le condizioni per l'ammissione e gli
adattamenti dei trattati su cui è fondata l'Unione, da essa determinati,
formano l'oggetto di un accordo tra gli Stati membri e lo Stato richiedente.
Tale accordo è sottoposto a ratifica da tutti gli Stati contraenti
conformemente alle loro rispettive norme costituzionali". Si tratta quindi di un accordo
internazionale che per entrare in vigore necessita della ratifica da parte di
tutti gli Stati membri. Vige pertanto il regime dell'unanimità. Qualora i
fautori della secessione avessero la meglio, è auspicabile una transizione
democratica e il più possibile indolore, nel rispetto della democrazia e
dell'autodeterminazione dei popoli.
mercoledì 27 agosto 2014
Presidenza UE e semestre europeo
Si è molto enfatizzato sulla presidenza italiana (1°
luglio-31 dicembre 2014) del Consiglio dell'Unione europea (anche Consiglio UE)
senza spiegare, però, di cosa si tratti in sostanza. Peraltro, taluni
confondono, in modo grave, la presidenza di turno con il c.d. "semestre
europeo". A noi studiosi della materia spetta il compito di chiarire
(sperando in un futuro di avere una informazione migliore…). In primo luogo
occorre chiarire che si parla del Consiglio UE (vale a dire l'istituzione che
riunisce periodicamente i rappresentanti dei governi nazionali "a livello
ministeriale" e secondo la materia all'ordine del giorno – ad es. Consiglio
"ecofin"; Consiglio agricoltura; Consiglio affari generali ecc.) e
non del Consiglio europeo che riunisce i Capi di Stato e di governo dell'UE.
Spesso i mass media confondono il Consiglio UE con il Consiglio europeo
(talvolta anche con il Consiglio d'Europa che è tutt'altra cosa). Gli Stati membri
che esercitano la presidenza durante ciascun semestre, presiedono le riunioni e garantiscono la continuità dei lavori
dell'UE in seno al Consiglio UE. Lo Stato "presidente" però collabora strettamente a gruppi di tre,
chiamati "trio". Questo sistema è stato introdotto dal trattato
di Lisbona nel 2009. Il trio fissa obiettivi a lungo termine e prepara un
programma comune che stabilisce i temi e le questioni principali che saranno
trattati dal Consiglio in un periodo di 18 mesi. Sulla base di tale programma,
ciascuno dei tre paesi prepara il proprio programma semestrale più dettagliato.
Il trio di presidenza attuale è formato dalle presidenze italiana, lettone e lussemburghese. (per
approfondimenti: http://www.consilium.europa.eu/council/what-is-the-presidency?lang=it)
Il "semestre
europeo", viceversa, è un ciclo di coordinamento delle politiche economiche
e di bilancio nell'ambito dell'Unione ed è una novità, a partire dal 2010, dopo
il trattato di Lisbona. Secondo il sito ufficiale del Consiglio UE,
durante il
semestre europeo gli Stati membri allineano
le rispettive politiche economiche e di bilancio con gli obiettivi e le norme
convenute a livello dell'UE. In tal
modo, il semestre europeo mira a: 1) garantire finanze
pubbliche sane; 2) promuovere la crescita economica; 3) prevenire squilibri
macroeconomici eccessivi nell'UE. La
recente crisi economica ha evidenziato la necessità di una più forte governance
economica e di un migliore coordinamento delle politiche tra gli Stati membri. Per
tali ragioni, e nel quadro di una più ampia riforma della governance economica
dell'UE, gli Stati membri hanno istituito il semestre europeo nel 2010. Il
primo ciclo si è svolto nel 2011. In una Unione di economie altamente
integrate, un coordinamento rafforzato
delle politiche può aiutare a evitare discrepanze e contribuire a
garantire convergenza e stabilità in tutta l'UE e nei suoi Stati membri. Gli
Stati membri hanno avvertito la necessità di sincronizzare i calendari di
queste procedure al fine di razionalizzare
il processo e meglio allineare
gli obiettivi delle politiche nazionali in materia di bilancio, crescita ed occupazione,
tenendo al contempo conto degli obiettivi che si sono dati a livello nazionale
e dell'Unione. Inoltre, si è imposta la necessità di estendere la sorveglianza e il coordinamento a politiche
macroeconomiche più ampie. A tal riguardo, Il semestre europeo si articola,
sostanzialmente, intorno a tre capitoli
di coordinamento della politica economica: 1) riforme strutturali, con un accento sulla promozione della
crescita e dell'occupazione in linea con la strategia Europa 2020; 2) politiche di bilancio, con l'obiettivo
di garantire la sostenibilità delle finanze pubbliche in linea con il patto di
stabilità e crescita; 3) prevenzione degli squilibri macroeconomici eccessivi. Per fare ciò è necessario
stabilire una tempistica comune delle procedure di coordinamento delle
politiche dell'UE: sono sincronizzati i calendari delle relazioni e
delle valutazioni in materia di politica economica e di bilancio a livello
dell'UE. In sostanzanza, il semestre europeo ha mutato il coordinamento delle
politiche economiche nazionali passando da un'ottica ex post ad un'ottica ex ante.
Per approfondimenti: http://www.consilium.europa.eu/special-reports/european-semester?lang=it
lunedì 21 luglio 2014
Breve nota sulla tutela del consumatore-turista
In periodo di
vacanze e di viaggi può essere utile sapere che il diritto dell'Unione europea
(questo fastidioso sconosciuto!) propone, da anni, una serie di atti molto
importanti a tutela del consumatore-turista-viaggiatore. Ma noi non ne sappiamo nulla. Ritardi di
voli, di treni o di navi, cancellazione, overbooking, smarrimento di bagagli,
per non giungere alla c.d. "vacanza rovinata", sono espressioni
tipiche di una disfunzione del sistema dei trasporti e dell'accoglienza che non
si verifica soltanto nel periodo di vacanza, ma che nei mesi "caldi"
si manifesta con maggiore frequenza; in una parola problematiche del viaggio e
del turismo in senso generale. Più propriamente, dal punto di vista giuridico,
si deve parlare di inadempimento contrattuale con tutto ciò che ne deriva in materia
di danno e suo risarcimento. Noi
non conosciamo i nostri diritti; così che, accettiamo di buon grado,
passivamente, ciò che ci propongono a parziale ristoro del danno subito; eppure
un ritardo, un negato imbarco (overbooking), o ancora lo smarrimento
(momentaneo o definitivo) di un bagaglio, è pur sempre foriero di un danno,
piccolo o grande che sia, che va
risarcito. Il diritto UE in materia di tutela del consumatore è la fonte
applicabile alle fattispecie testè citate. Non può richiamarsi una norma di
diritto italiano in contrasto con la legislazione comunitaria in vigore giacchè
la norma UE (provvista di effetto diretto) prevale e deve essere applicata.
Come se fosse una legge italiana. Non sto a dare il dettaglio delle normative
UE in materia, ma si sappia che in caso di overbooking (aereo o navale) la
normativa europea è molto protettiva nei confronti dei consumatori; lo stesso
dicasi per i ritardi dei treni superiori ai 60 minuti e più; così come nel caso
più grave della c.d. "vacanza rovinata" che presenta, dopo la
sentenza della Corte UE nel caso Litner, una nuova fattispecie di danno
esitenziale.
venerdì 20 giugno 2014
L'Unione europea dopo le votazioni dei cittadini UE
Terminata la
campagna elettorale "europea", com'è noto dominata da slogan del tipo
"te la do io l'Europa", vediamo ora gli effetti del voto che in
questa occasione appaiono a dir poco diversificati. Ricordando, tuttavia, che
nel dibattito generale della campagna elettorale di Unione europea si è parlato
poco o niente trasferendo, come sempre, la competizione su questioni puramente
interne. E mi riferisco non solo ai partiti "no euro o no europa"
bensì alla maggior parte delle compagini politiche. E' un atteggiamento
deprecabile che evidenzia la gestione "domestica" degli affari con
una visione provinciale della politica italiana. A seguito di queste elezioni,
tuttavia, il risultato delle urne "europee" del 2014 rappresenta un fatto
nuovo, più democratico, che va al di la della scelta dei 751 europarlamentari;
per la prima volta della storia comunitaria, infatti, i cittadini europei hanno
espresso un voto che non soltanto gura una loro rappresentanza (o maggioranza)
in seno al Parlamento europeo (PE) (che li rappresenta nella "triade"
legislativa del sistema istituzionale UE), ma anche, e (forse) soprattutto,
indirettamente, va ad incidere
sulla successiva nomina del Presidente della Commissione europea. Organo che,
lo ricordo, rappresenta l'interesse europeo comune. Di conseguenza, i cittadini
UE hanno avuto la possibilità di incidere su due istituzioni fondamentali della
"triade" legislativa, considerando che il Consiglio UE (meglio noto
come "dei ministri") riunisce i ministri dei governi nazionali per
materia trattata (ecofin, affari generali, agricoltura, ambiente, commercio
ecc.). Al di fuori del "triangolo legislativo" il Consiglio europeo,
organo sostanzialmente politico, che riunisce de facto i Capi di Stato e di governo dei 28 Stati membri che nella
procedura di nomina del Presidente della Commissione gode di un ruolo
importante. . Pertanto, i cittadini UE sono considerati come parte integrante
del sistema; e questa è una conquista democratica raggiunta negli anni a
seguito di estenuanti trattative e grazie, soprattutto, alla giurisprudenza della Corte di giustizia
UE. Ma nessuno lo sa. Ripeto: nessuno ne è a conoscenza. Così che, allo slogan
"te la do io l'Europa" si dovrebbe considerare la determinazione collettiva
di chi ha votato ed espresso una preferenza: questa è ordinaria democrazia
("l'Europa che vogliono i cittadini"). Per di più in un sistema
complesso come è l'UE che racchiude Stati (e che Stati!), istituzioni e
cittadini. La questione è, allora, da un lato, il rispetto della volontà
politica dei cittadini con tutte le conseguenze che ne derivano e, dall'altro,
il rispetto delle norme giuridiche, in particolare delle norme costituzionali
europee (i Trattati). E' prevedibile un conflitto tra istituzioni UE: in
particolare tra PE e Consiglio europeo, giacchè quest'ultimo non sembra
accettare di buon grado la nuova previsione dei Trattati prevista dalla riforma
di Lisbona nel 2007. La base giuridica della questione è l'art. 17, parag. 7
TUE che stabilisce che il Consiglio europeo nella nomina del Presidente della
Commissione europea, dopo consultazioni appropriate, deve "tener
conto" dei risultati delle elezioni del PE. In passato, la designazione
era appannaggio esclusivo del Consiglio europeo con una successiva "ratifica"
da parte del PE (una sorta di assenso democratico). Dopo Lisbona, nell'ottica
di un sistema più democratico e vicino ai cittadini, la procedura di nomina si
sbilancia verso il PE e, le conseguenti decisioni dei Capi di Stato e di governo, appaiono
come un momento di fusione del profilo democratico ed il profilo
intergovernativo. Ciò perchè il PE e la Commissione europea sono collegati da un rapporto
di fiducia (voto di approvazione) che in qualsiasi momento si può rompere
(mozione di censura) con la conseguenza delle dimissioni dei membri della
Commissione (giacchè organo collegiale). Il Consiglio europeo non può tralasciare
questa relazione istituzionale fondamentale e democratica per gli equilibri
istituzionali complessivi. Comprendo che sono in gioco anche altre decisioni
importanti da prendere entro l'anno (presidente del Consiglio europeo, Alto
Rappresentante per la politica estera, eurogruppo ecc.) ma la relazione
PE-Commissione è l'essenza stessa della democrazia nel sistema istituzionale
dell'Unione europea. Aspetto, questo, che viene richiamato enfaticamente nel
Preambolo del Trattato sull'Unione europea lì dove si invitano gli Stati membri
a "rafforzare
ulteriormente il funzionamento democratico ed efficiente delle istituzioni in
modo da consentire loro di adempiere in modo più efficace, in un contesto
istituzionale unico, i compiti loro affidati".
domenica 1 giugno 2014
Risposta a D.M. che scrive su Il Sole 24 Ore una lettera su "Il reale peso dell'Europarlamento"
Leggo la lettera pubblicata oggi 29 maggio 2014 (sul
numero 145 a pag. 22) dal titolo "Il reale peso dell'Europarlamento"
a firma D.M., che mi da l'opportunità di spiegare meglio e di
chiarire a beneficio della collettività. Da studioso della materia senza alcun
motivo di polemica. Anzi, lo ringrazio per la sollecitazione. Non dobbiamo
dimenticare che l'Unione europea non è uno Stato (ancorché taluni la ritengano
un "Super-Stato" o qualcosa del genere) e, quindi, dal punto di vista
strettamente giuridico non è possibile fare riferimenti statali. Non sono
corretti né adeguati. L'accostamento è improponibile. Il sistema istituzionale
UE è un sistema complesso (28 ordinamenti giuridici da cooordinare), diverso,
dalle due anime: una propriamente "comunitaria", direi istituzionale,
l'altra intergovernativa. Il potere legislativo è appannaggio di tre
istituzioni comunitarie: la Commissione europea che gode di un diritto molto
esteso di iniziativa legislativa e dà l'avvio all'iter legislativo nell'interesse
comune; ed è l'organo sostanzialmente esecutivo e di controllo UE; poi abbiamo
il Parlamento europeo (PE) (organo che rappresenta i Popoli europei) ed il
Consiglio dell'Unione (che rappresenta i governi degli Stati membri; da non
confondere con il Consiglio europeo che è un organo politico che riunisce i
Capi di Stato e di governo dei 28 Stati). Dalla dialettica istituzionale di PE
e Consiglio, e dai differenti obiettivi delle istituzioni, scaturisce la
legislazione UE che generalmente conosciamo come il diritto dell'Unione
europea. Quelle "leggi" europee che, in modo diretto ovvero in modo
mediato, stabiliscono diritti e doveri non solo per lo Stato ma anche per le
persone (fisiche e giuridiche). Il Parlamento europeo, oggi, a seguito dell'ultima
riforma del Trattato di Lisbona entrata in vigore il 2010, gode di un potere
legislativo riconducibile a quello del Consiglio UE, e quindi, laddove non
riscontri un interesse generale e soprattutto dei cittadini che rappresenta,
può bloccare l'iter legislativo fino al punto di porre il veto nei confronti
del Consiglio. E' una importante conquista raggiunta negli anni. Ricordo,
infatti, che con la novellata procedura legislativa ordinaria, che è la
procedura più importante ed utilizzata per l'esercizio delle politiche comuni,
il PE (oltre alle altre prerogative altrettanto importanti che non sto in
questa sede ad esporre) rappresenta l'unica "voce" dei cittadini
europei. Ecco perché è importante essere ben rappresentati all'interno del
sistema legislativo UE. Quanto al costo degli Europarlamentari, com'è
comprensibile, si tratta di scelte politiche. Ricordo soltanto, per maggiore
chiarezza, che il bilancio UE a differenza di altre organizzazioni
internazionali, si fonda su risorse proprie (art. 311 TFUE): si tratta di entrate prelevate nel quadro delle politiche
comunitarie e non già provenienti dagli Stati membri e calcolate come
contributi nazionali. Le risorse proprie sono costituite da dazi doganali,
diritti agricoli, contributi zucchero, aliquota prelevata sulla base imponibile
armonizzata dell'imposta sul valore aggiunto (IVA) e aliquota prelevata sul
reddito nazionale lordo (RNL).
martedì 29 aprile 2014
Lettera a "Il Sole 24Ore" pubblicata oggi 29 aprile 2014 pag. 20
Oggi 29 aprile 2014 sul quotidiano "Il Sole 24 Ore" a pag. 20 una mia precisazione; che pubblico sul mio profilo anche agli amici di FB.
"Leggo la lettera firmata N.B. pubblicata oggi 28 aprile 2014 sul numero 116 a pag. 14 dal titolo "Gli europarlamentari sono poco attenti alle tematiche green". Mi sembra doveroso fare alcune precisazioni, per correttezza e per chiarezza nei confronti degli elettori che tra qualche giorno saranno chiamati a votare il nuovo Parlamento europeo. Sono d'accordo con il lettore N.B. sulla questione dell'assenteismo dei nostri parlamentari: per risolvere questa piaga italiana (ma non solo italiana!) occorre non solo andare a votare ma anche votare persone di un certo spessore; ovviamente al di la del colore politico e delle idee personali di ciascuno. Non sono d'accordo, invece, sulle "colpe" che i parlamentari europei avrebbero sull'annosa questione delle tre sedi del Parlamento europeo. Preciso che il Parlamento europeo nulla può sulla scelta delle sedi delle istituzioni europee, incluse il Parlamento, giacché la competenza a legiferare in questa (delicata) materia è dei governi dei 28 Stati membri (art. 341 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea). Inoltre, il Protocollo n. 6 allegato al Trattato stabilisce nel dettaglio la generale e generica norma contenuta nell'art. 341 sancendo, tra l'altro, anche per la Commissione europea e per il Consiglio dell'Unione, che hanno la sede principale a Bruxelles, l'onere di tenere servizi e sessioni a Lussemburgo. E' una scelta politica come si può ben comprendere che risale al 1965 e che è stata negli anni sempre confermata. Quanto alle "tematiche green" ricordo soltanto che se abbiamo in Italia una politica ambientale lo dobbiamo proprio (ed esclusivamente) al Parlamento europeo e all'intero diritto UE (Titolo XX "Ambiente", artt. 191-193; peraltro materia disciplinata anche dall'art. 37 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, in quanto diritto fondamentale della persona".
Massimo Fragola
"Leggo la lettera firmata N.B. pubblicata oggi 28 aprile 2014 sul numero 116 a pag. 14 dal titolo "Gli europarlamentari sono poco attenti alle tematiche green". Mi sembra doveroso fare alcune precisazioni, per correttezza e per chiarezza nei confronti degli elettori che tra qualche giorno saranno chiamati a votare il nuovo Parlamento europeo. Sono d'accordo con il lettore N.B. sulla questione dell'assenteismo dei nostri parlamentari: per risolvere questa piaga italiana (ma non solo italiana!) occorre non solo andare a votare ma anche votare persone di un certo spessore; ovviamente al di la del colore politico e delle idee personali di ciascuno. Non sono d'accordo, invece, sulle "colpe" che i parlamentari europei avrebbero sull'annosa questione delle tre sedi del Parlamento europeo. Preciso che il Parlamento europeo nulla può sulla scelta delle sedi delle istituzioni europee, incluse il Parlamento, giacché la competenza a legiferare in questa (delicata) materia è dei governi dei 28 Stati membri (art. 341 Trattato sul funzionamento dell'Unione europea). Inoltre, il Protocollo n. 6 allegato al Trattato stabilisce nel dettaglio la generale e generica norma contenuta nell'art. 341 sancendo, tra l'altro, anche per la Commissione europea e per il Consiglio dell'Unione, che hanno la sede principale a Bruxelles, l'onere di tenere servizi e sessioni a Lussemburgo. E' una scelta politica come si può ben comprendere che risale al 1965 e che è stata negli anni sempre confermata. Quanto alle "tematiche green" ricordo soltanto che se abbiamo in Italia una politica ambientale lo dobbiamo proprio (ed esclusivamente) al Parlamento europeo e all'intero diritto UE (Titolo XX "Ambiente", artt. 191-193; peraltro materia disciplinata anche dall'art. 37 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, in quanto diritto fondamentale della persona".
Massimo Fragola
giovedì 24 aprile 2014
L’Europa presagita da Croce - Ciclo di 5 seminari
La Compagnia della Disciplina della Croce e
l’Antenna del Circolo di Studi Diplomatici
hanno il piacere di invitare la S.V., nel
contesto del Maggio dei Monumenti, al primo dei 5 Sabati del ciclo
"L’Europa presagita da Croce"
Sabato 3 maggio 2014 ore 11,00
Conversazione di Massimo Fragola:
“Da Altiero Spinelli ad oggi quale Europa?”
Presenzierà Gerardo Marotta al quale sono
dedicati i 5 incontri
Chiesa della Santa Croce
con ingresso da Via C. Sersale, 9 - Napoli
lunedì 17 marzo 2014
Lacci e lacciuoli europei
Qualche giorno fa Alessandro Leipold su Il Sole 24 Ore
analizzava le cause della nostra crisi. Una vecchia storia. Negli ultimi 30
anni (circa) l'Italia è stata sempre in crisi: più o meno grave. Molto
attentamente, Leipold rilevava che già nel 1970 Giudo Carli parlava di
"lacci e lacciuoli" che ingabbiavano come una morsa la nostra
economia. La frase "lacci e lacciuoli" non era però di Carli bensì fu
coniata qualche anno addietro da Luigi Enaudi; entrambi però si riferivano ai
numerosi vincoli che soffocavono la nostra economia e ne riducevano il
potenziale. Vincoli ed ostacoli del tutto domestici che, come ha affermato
Leipold, sono "zavorre accuratamente made in Italy". Ad esempio il
costo della pubblica amministrazione e l'inefficienza della stessa; l'intreccio
di caste corporative; la regolamentazione bizantina del mercato del lavoro; il
fardello del debito pubblico. Per fare solo alcuni esempi. Ma noi guardiamo
sempre altrove, mai in noi stessi. Mai un'autocritica dalla quale partire per
rinnovare. Veramente e concretamente. Le cause della crisi (ennesima!) sono sempre
al di fuori dei nostri confini. I vincoli europei…i compiti a casa. L'Unione
europea è il capro espiatorio, da "demonizzare", da condannare tout
court senza appello. Soprattutto senza sapere. Questo atteggiamento, molto in
voga negli ultimi anni, è stato alimentato non soltanto dagli euroscettici (che
per carità hanno tutto il diritto di farlo), ma anche da persone (mi riferisco
in particular modo a politici) che euroscettiche non sono. Quante volte abbiamo
sentito la frase: "ce lo impone l'UE" oppure "è un obbligo
comunitario" talvolta impropriamente affermato. Certo l'UE costituisce una
grande valvola di sfogo soprattutto per i governi nazionali; quail che siano. E
specialmente i nostri governi degli ultimi anni. E' chiaro che l'ordinamento
giuridico UE determina delle regole che si applicano nel territorio UE,
precisamente, 28 Stati e più di 500 milioni di persone. Regole che devono
essere rispettate da tutti pena una disparità di trattamento e la violazione
del principio costituzionale di non discriminazione. A ciò vigila sul piano
politico la Commissione sul piano giurisdizionale la Corte di giustizia. Se ciò
non avviene si verifica la "rottura del patto" e la violazione della
leale collaborazione, altro principio costituzionale. Ciò detto, è altresì
chiaro che la governance dell'UE può e deve essere migliorata; soprattutto la
gestione della moneta comune (che lo ricordo gode nei Trattati, ed al di fuori
di questi, di una disciplina particolare), che gli addetti ai lavori ben
criticano già dalla sua nascita nel 1992 Trattato di Maastricht. L'ordinamento
UE non è perfetto ed è quindi perfettibile. Lo comprendo una legislazione
sconosciuta che promana da un sistema sconosciuto non comprensibile. Ma accettabile
e influenzabile nelle sedi opportune; prima che le "leggi europee"
siano adottate. Il parlamento europeo è l'unica istituzione chef a i nostri
interessi, al di là dei governi e degli Stati. E la prossima votazione europea
è l'occasione buona per invire parlamentri seri e preparati. Al di la del
colore politico di ciascuno. Stare insieme agli altri cittadini europei, agli
altri Stati membri, nell'esercizio delle competenze condivise è una necessità
ineludibile. Quindi, anche un'occasione per darci definitivamente una regolata
al nostro modo di essere e rispettare (anche) gli impegni europei. Come
d'altronde fanno gli altri 27 Stati.
martedì 11 febbraio 2014
La Corte Costituzionale tedesca e i cittadini dell'Unione europea
La Corte Costituzionale tedesca (Bundesverfassungsgericht), ha deciso di rinviare alla
Corte di giustizia dell'Unione europea (in prosieguo anche Corte UE) un ricorso
contro il programma della BCE di acquisti illimitati di bond noto come OMT
(Outright Monetary Transactions). E' un fatto importante che va segnalato. Infatti, la suprema Corte tedesca si
rivolge, per la prima volta in cinquant’anni, alla Corte UE di Lussemburgo,
attivando così la procedura pregiudiziale contenuta nell'art. 267 del Trattato
sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE). La decisione resa nota il 7 febbraio 2014, si inserisce
nel più ampio dibattito pendente dinanzi alla Corte costituzionale tedesca
riguardo la costituzionalità della partecipazione tedesca allo European Stability Mechanism (ESM),
il fondo europeo di salvataggio finanziario. Su questa questione il Bundesverfassungsgericht emetterà una sentenza il
18 marzo dopo che la Corte UE si sarà pronunciata. I due temi sono collegati in
quanto, per poter ricevere gli aiuti dal programma OMT, uno Stato deve
necessariamente sottoscrivere un programma di finanziamento dai fondi europei
di salvataggio (ESM), rispettandone la condizionalità. Secondo molti cittadini
tedeschi il programma OMT violerebbe l'articolo 123 TFUE e per questo motivo la
Corte costituzionale tedesca ha rinvito la questione alla Corte UE attendendo
il suo responso. E' importante ricordare che l'art. 267 TFUE disciplina efficacemente
la cooperazione tra i giudici nazionali degli Stati membri (quali che siano) e la
Corte di giustizia UE; costituendo, così, in materia di diritto dell'Unione
europea, un mega-ordinamento giudiziario europeo coordinato ed integrato.
Siffatta procedura trasforma il ruolo dei giudici nazionali in giudici europei
"decentrati", ovvero giudici "naturali" del diritto UE.
L'aver rinviato, per la prima volta, gli atti della causa alla Corte di
giustizia è un fatto importante, laddove si consideri che le Corti
costituzionali (non tutte per la verità) non sempre e con favore hanno attivato
la procedura di cooperazione, non ritenendo di esserne né obbligate né
coinvolte funzionalmente. Anche la Corte costituzionale italiana è stata riluttante
a rinviare gli atti alla Corte UE fino al leading
case della nota ordinanza n. 103/2008 a cui ha fatto seguito la più recente e
significativa ordinanza di rinvio n. 207/2013
che attende la pronuncia della Corte di giustizia. In sostanza, dopo un lungo
periodo di silenzio, le Corti costituzionali (sopra citate) hanno compreso che
la procedura del rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE non rappresenta una diminutio delle loro funzioni costituzionali, bensì un arricchimento delle
loro prerogative e una "valvola di sfogo" significativa in una
materia, tanto complessa come il diritto UE, non sempre di facile assimilazione
(accettazione?) anche ai giudici costituzionali. Sicché, messe da parte le
presunzioni di "onnipotenza" e vetusti retaggi nazionalistici (leggi
sovranità) anche i giudici di Karlshrue che, lo ricordo, rappresentano un punto
di riferimento certo del diritto in Europa, hanno ben compreso che cooperare
non vuol dire sottomettersi a nessuno e men che meno alla Corte di giustizia
UE. Il segnale va letto anche in altra prospettiva. Ci si rende conto che (dal
1951) siamo parte di un ordinamento sovranazionale costituito per disciplinare
insieme talune materie che gli stessi Stati hanno trasferito, volontariamente,
dalla loro competenza esclusiva (sovranità) alle istituzioni dell'Unione
europea? E che tra queste istituzioni l'unica che ci rappresenta è il Parlamento
europeo? Le Corti costituzionali lo hanno compreso (anche in ritardo…); e i
cittadini?
mercoledì 5 febbraio 2014
Sulle prossime elezioni del Parlamento europeo
Le elezioni del Parlamento europeo (PE) del maggio prossimo, sono le più
importanti (e complicate) degli ultimi 50 anni. Per vari motivi. Cercherò di
spiegarne i più salienti (almeno dal mio punto di vista). Ricordando,
preliminarmente, che i circa 530 milioni di cittadini UE hanno solo lo
strumento del voto europeo, ogni 5 anni, per poter partecipare (ed influenzare)
in via mediata al processo di formazione degli atti legislativi dell'Unione
europea. "Leggi europee"
che non riguardano esclusivamente gli Stati membri (sarebbe un diritto
internazionale) bensì, la maggior parte di esse, incide immediatamente sulla vita e sui comportamenti di noi
cittadini (diritto sovranazionale). Ovviamente nelle materie nelle quali l'UE
può legiferare; vale a dire, in quei settori che gli Stati membri hanno
devoluto alla competenza dell'Unione. Ricordo, infatti, che l'UE non può
legiferare in qualsiasi settore della nostra vita dovendosi attenere alle
cc.dd. "competenze di attribuzione", cioè, laddove c'è stata cessione
di sovranità, volontaria ed irrevocabile (almeno in linea di principio). Non è
questo lo scopo di queste riflessioni spiegare perché gli Stati hanno ceduto la
loro sovranità in talune materie giacché il discorso ci porterebbe molto
addietro negli anni; addirittura nel momento iniziale dell'integrazione europea
con la nascita della prima Comunità del carbone e dell'acciaio (CECA) del 1951.
Dal che, vale la pena solo richiamare l'attenzione sul fatto che la citata
"cessione di sovranità" non è "assoluta", nel senso che gli
Stati si sono spogliati completamente della gestione di siffatte
materie; bensì trattasi di una gestione "condivisa" delle stesse da attuare
dalle istituzioni UE a tal uopo previste, in particolare, mi riferisco, al
Parlamento europeo, al Consiglio dell'Unione europea (anche detto Consiglio UE
o, se si vuole, "dei ministri") ed al Consiglio europeo, alla
Commissione europea. Ciascuna istituzione ha degli obbiettivi ben precisi e
rappresenta una determinata categoria di soggetti. Il PE rappresenta noi
cittadini, il Consiglio europeo i Capi di Stato o di governo; il Consiglio UE i
rappresentanti dei governi nazionali; la Commissione gli interessi europei, gli
interessi comuni. Per far sì che il sistema istituzionale funzioni a regola, e
a garanzia degli interessi in gioco, è necessario che ognuno faccia la sua
parte e ciascuna istituzione rispetti il mandato che loro assegna il Trattato.
In primis il Parlamento europeo. Per di più, dopo la riforma del Trattato di
Lisbona del 2010, con i nuovi Trattati sull'Unione europea (TUE) e sul
funzionamento dell'Unione europea (TFUE), il Parlamento europeo diventa
legislatore a pieno titolo insieme al Consiglio UE nelle materie nelle quali è
prevista la procedura legislativa ordinaria (art. 294 TFUE), oggi applicabile
alla gran parte delle materie di competenza UE. E' necessario, pertanto, un
Parlamento qualificato che si ponga in contrapposizione con gli interessi
governativi, pena l'irrilevanza del ruolo del PE e, di conseguenza, il rispetto
della democrazia rappresentativa che informa l'intero funzionamento del sistema
UE (art. 10, parag. 1 TUE). E' l'unico modo per far sentire, ancorché in via
mediata, la nostra voce ("I cittadini sono direttamente
rappresentati, a livello dell'Unione, nel Parlamento europeo", art. 10,
parag. 2 TUE). Tutto ciò si realizza, come detto, oltre al ruolo
istituzionale di co-legislatore approvando, modificando o respingendo le
proposte legislative presentate dalla Commissione, con la ulteriore funzione di
controllo sull'operato della stessa Commissione (controllo politico grazie alla
concessione o revoca della fiducia all'esecutivo UE), nonché in ordine
all'adozione del bilancio dell'Unione europea (aspetto questo delicatissimo
come si può immaginare). Un'ulteriore novità della recente riforma di Lisbona
consiste nel dovere del PE di
collaborare con i parlamenti nazionali degli Stati membri, al fine assicurare
di una maggiore partecipazione dei parlamenti nazionali
alle attività dell'Unione europea e di potenziarne la capacità di esprimere i
loro pareri su progetti di atti legislativi dell'Unione europea e su altri
problemi che rivestano per loro un particolare interesse (Protocollo n. 1
allegato ai Trattati). In ultimo, per concludere, sarà il prossimo Parlamento
eletto ("tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo", art. 17, parag. 7
TUE) che avrà la competenza ad eleggere, per la prima volta,
il candidato
proposto dal Consiglio europeo alla carica di presidente della Commissione
europea. Con possibilità di bocciare la
candidatura presentata ed esprimere un diritto di veto sulla persona. Quindi un
ruolo fondamentale del PE, come espressione dei popoli europei,
nell'indicazione del Presidente della Commissione per i prossimi 5 anni.
Occorre meditare su tutto ciò.
giovedì 23 gennaio 2014
Ancora sul caso dei Marò (parte IV): diritti umani ed esecuzione delle misure restrittive della libertà
L'annosa
questione dei nostri Marò detenuti in India ed in attesa di un chiaro capo
d'imputazione dal punto di vista giuridico, rasenta oramai una squallida farsa
se non fosse per la gravità dei fatti alla base della controversia. Rinvio ai precedenti post per la spiegazione dei
fatti. Una disputa politico-diplomatica
che non ha riscontro nella nostra storia della Repubblica. Sicuramente tutti
ricordiamo altre discutibili vicende (soprattutto con gli USA) accadute negli
anni addietro, ma mai come in questo caso si è trattato di uno snervante lungo
negoziato politico-diplomatico che ancora non riesce a vedere la conclusione.
Snervante soprattutto per i nostri Marò e per i loro familiari. Allo stato
attuale, e dopo circa due anni (!) dai tragici eventi (nei quali, va detto per onestà
intellettuale, furono uccisi due pescatori indiani e che è necessario fare
giustizia) non è stato ancora formulato il capo d'imputazione per i nostri
militari. E' un comportamento sconcertante in violazione delle regole
internazionali ed in violazione dei diritti fondamentali della persona, diritti
generalmente ed universalmente riconosciuti all'individuo, in qualsiasi momento
della sua vita. Anche durante lo stato detentivo. Anche durante misure
cautelari in attesa di una sentenza. Basti pensare, per fare un solo esempio,
ai divieti di tortura e di trattamenti inumani e degradanti del detenuto
riconosciuti da tutte le "nazioni civili" e codificati in varie
convenzioni internazionali, in norme costituzionali e "carte dei
diritti". Anche dall'India. Ciò appare sorprendente laddove si consideri,
con tutte le cautele del caso, che l'India è da considerare come la più grande "democrazia"
al mondo (quante accezioni di
democrazia?), con più di un miliardo di cittadini, ancorchè l'esercizio di tali
diritti risente delle grandi dimensioni del paese,
dei diritti delle varie popolazioni molto frammentati e diversificati da
regioni a regioni, nonché dalla variegata diversità etnica e religiosa presente
sul territorio. A tal riguardo, più volte Human Rights Watch, che lo ricordo è un'organizzazione
internazionale non governativa che si occupa della difesa dei diritti umani, nonchè il
relatore speciale delle Nazioni Unite
sulla situazione del rispetto e difesa dei diritti umani (2011), hanno espresso
preoccupazioni per il rispetto in India di tali diritti e libertà fondamentali,
posto che sono stati riscontrati numerosi casi di torture, maltrattamenti,
scomparse, minacce, arresti e detenzioni arbitrarie, false accuse e
quant'altro. Non è questo a quanto consta il caso dei Marò. Tuttavia, nei
trattamenti disumani e degradanti vanno annoverate non soltanto le pene
corporali e materiali, ma anche le costrizioni psicologiche, immateriali, il
senso di incertezza reiterata, la minaccia di una conclusione tragica degli
eventi con la pena di morte, che i nostri marò stanno subendo da circa due
anni. In questo intricato contesto vale la pena analizzare l'accordo
internazionale bilaterale tra Italia ed India firmato il 10 agosto 2012, cioè
nel bel mezzo della contesa, ed entrato in vigore il 4 novembre 2012. L'accordo
ratificato in Italia con la legge 26 ottobre 2012, n. 183 è rubricato "(Accordo)
sul trasferimento delle persone condannate"
ed è stato adottato dai due governi cira sette mesi dall'inizio della
controversia internazionale. Il che avrebbe dovuto stemperare le tensioni
laddove lo strumento giuridico si pone l'obiettivo precipuo, come recita il
preambolo dell'accordo, di "sviluppare la
cooperazione per il trasferimento delle persone condannate al fine di
facilitarne la riabilitazione sociale". Sorprendente! Vediamo il contenuto
dell'accordo e i suoi limiti nelle parti essenziali. Nell'art. 1, rubricato "Definizioni"
spiccano il contenuto delle lettere a), b) e d). Sub a) "condanna" è
qualsiasi pena o misura privativa della libertà personale inflitta da un
giudice a seguito della commissione di un reato per un determinato periodo di
tempo o per tutta la vita; sub b) "sentenza" è una decisione del
giudice con la quale venga inflitta una condanna; sub d) "persona
condannata" è la persona che sconta una pena detentiva in seguito ad una
sentenza pronunciata del giudice. Le norme sono chiare ma a tal riguardo non
appare conforme l'atteggiamento del governo indiano posto che siamo ancora in
attesa (non dico) della sentenza (definitiva) bensì del mero capo
d'imputazione. Mi pare che i termini equi e ragionevoli del processo si
applichino anche in India. Dall'interpretazione funzionale dell'accordo
bilaterale emergono alcune ipotesi percorribili. Durante questa fase
lunghissima, in attesa del capo d'imputazione e della conseguente sentenza, i
due marò sarebbero potuti essere rimpatriati (in attesa di giudizio) posto che,
ai sensi dell'accordo, non è necessario una sentenza formale bensì qualsiasi "misura
privativa della libertà personale inflitta da un giudice a seguito della
commissione di un reato" [sub a) e sub b)]. Secondo l'art. 2 "una
persona condannata nel territorio di uno Stato Contraente può essere trasferita
nel territorio dell'altro al fine di scontare la pena che gli è stata
inflitta"; e ciò vale sia per una sentenza di condanna (che ancora non
c'è), sia per qualsiasi "misura privativa della liberta' personale
inflitta da un giudice a seguito della commissione di un reato" in quanto "persona
condannata" [sub. d)], che richiama la nozione di "condanna" sub
a). È la persona, tuttavia, che deve "manifestare allo Stato trasferente o
a quello ricevente la propria volontà di essere trasferito" [art. 2,
parag. 1] ed è altresì necessario che gli Stati contraenti siano d'accordo sul
trasferimento [art. 4, parag. g)].
Ai sensi dell'art. 2, parag. 4), l'accordo non è tuttavia applicabile se la
persona è stata condannata per un reato previsto dalla legge militare. La norma
non specifica a quale ordinamento giuridico deve appartenere la "legge
militare": se a quello di provenienza della persona che ha commesso il
reato, ovvero alla legge territoriale nel quale il reato è stato consumato. In
ogni caso mi sembra acclarato che il fatto è avvenuto in acque internazionali,
pertanto la norma in questione non rileverebbe dal punto strettamente
giuridico. Ma la realtà, come si sa, ha preso un'altra prospettiva. Altre
limitazioni all'esecuzione dell'accordo sono rilevabili nell'art. 4 ("Condizioni
per il trasferimento"), in particolare nella lett. b) laddove si specifica
che l'accordo si applica soltanto se "la sentenza è definitiva"; con
ciò ponendosi in contrasto con la su citata norma che sancisce che non è
necessario una sentenza bensì qualsiasi "misura privativa della libertà
personale inflitta da un giudice a seguito della commissione di un reato"
[sub a) e sub b)]. Qualora l'interpretazione funzionale non sia gradita
occorrerà attendere una sentenza del giudice indiano. Fermo restando il
principio che vede la possibilità di scontare la pena in Italia. In effetti, il
trasferimento della persona intenderebbe, da un lato, smussare le tensioni
politico-diplomatiche tra i due Stati e garantire in egual misura allo Stato trasferente
l'impegno dello Stato ricevente a provvedere al restante della pena;
dall'altro, favorire il reinserimento sociale del "condannato" nel
suo ambiente di origine che, come sottolineato, è un obiettivo fondamentale che
informa l'intero accordo. A tal riguardo "le autorità dello Stato
ricevente devono continuare l'esecuzione della condanna rispettando la natura e
la durata della pena inflitta dalla sentenza dello Stato trasferente",
ancorché "l'esecuzione della sentenza sarà disciplinata dalla legge dello
Stato ricevente e soltanto tale Stato sarà competente per l'adozione di tutte
le relative decisioni" (art. 9). Si sottolinea che l'accordo è applicabile
all'esecuzione di condanne inflitte prima e dopo la sua entrata in vigore (art.
17) e pertanto applicabile in ogni caso alla fattispecie in esame. Che
aggiungere? Si attende il capo d'imputazione e la relativa sentenza
considerando che gli strumenti per l'esecuzione della stessa, nel rispetto dei
canoni di umanità e pacificazione, possono essere utilizzati nel miglior modo
possibile in favore dei due Marò che già hanno subito non poche vessazioni.
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